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L’Italia al tempo di Pasolini
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L’Italia al tempo di Pasolini
Per capire quale fosse il contesto storico nel quale sono maturate le sue opinioni abbiamo chiesto ad Alessandro Salacone, che a Mosca è docente presso l'Università Statale Russa di Scienze umanistiche e rappresenta la società Dante Alighieri, di tracciare un quadro delle varie fasi storiche che fanno da sfondo alla vita di Pasolini.

L’importanza di Pasolini non riguarda solo la letteratura e la cultura, ma anche la storia italiana, poiché con essa egli ha continuato a confrontarsi, mettendo al centro della propria riflessione la responsabilità morale e civile dell’intellettuale. Pasolini si è costantemente interrogato sul presente, leggendo la contemporaneità in relazione al passato e presagendo le direzioni in cui il futuro si sarebbe sviluppato.

Per capire quale fosse il contesto storico nel quale sono maturate le sue opinioni abbiamo chiesto ad Alessandro Salacone, che a Mosca è docente presso l'Università Statale Russa di Scienze umanistiche e rappresenta la società Dante Alighieri, di tracciare un quadro delle varie fasi storiche che fanno da sfondo alla vita di Pasolini.

 

Alessandro Salacone

La produzione letteraria, poetica e cinematografica di Pasolini si situa nel secondo dopoguerra italiano, cioè negli anni che vanno dalla nascita della Repubblica Italiana nel 1946, dopo il lungo ventennio fascista, fino alla morte dello scrittore nel 1975.

Questi trent’anni sono anni fondamentali per la storia dell’Italia contemporanea poiché sono gli anni in cui il paese si rialzò dopo il trauma della seconda guerra mondiale e dell’esperienza fascista; costruì nuove basi per la propria esistenza, sviluppandosi sotto tutti i punti di vista, politico-istituzionale, sociale, economico, con importanti ricadute anche sulla propria produzione culturale, e infine entrò in una nuova epoca di cambiamenti alla fine degli anni Sessanta, generati dalla situazione interna del Paese e dell’andamento delle vicende internazionali.  

L’Italia dopo la guerra era un paese in rovina, nel vero senso della parola. Il Paese, potremmo dire, era un cumulo di macerie: moltissime abitazioni private erano state distrutte, così come fabbriche e infrastrutture, l’inflazione cresceva sempre di più a fronte di un generale impoverimento delle casse dello Stato. Molte città della penisola erano state bombardate, vi era un alto numero di profughi, di vittime di guerra, di soldati tornati dal fronte. Altissimo era il numero di disoccupati sia nella classe operaia sia tra i lavoratori dell’agricoltura e questo problema, unito alla generale condizione del paese, accresceva tensioni sociali che non di rado sfociavano in diffuse manifestazioni di protesta e, in alcuni casi, in vere e proprie sommosse.

Insomma, la situazione economica risultava fortemente indebolita dagli eventi bellici e nel Paese si registravano sentimenti misti: da una parte vi era un grande desiderio generale di ricostruzione, dall’altra emergevano tutte le contraddizioni che il ventennio fascista e la guerra avevano lasciato.

Peraltro il Paese rimaneva fortemente diviso. La divisione del paese era una questione strutturale sin dall’unità d’Italia, in particolare si registravano grandi differenze tra Nord e Sud. Ma dopo la guerra questa divisione viene confermata dai risultati dell’importante referendum che si svolse il 2 giugno 1946, dove gli italiani – e per la prima volta le donne, che fino ad allora erano state escluse dal voto – furono chiamati ad esprimersi sull’ordinamento dello Stato: mantenere la monarchia oppure istituire una Repubblica?

I risultati del referendum mostrarono che in Italia un’ampia fascia della popolazione, soprattutto nel Meridione, sosteneva l’Istituto monarchico. Per la monarchia, a livello nazionale, votò il 45,7% degli elettori, e dunque i voti a favore della Repubblica furono maggioritari (54,3%). Ma è molto interessante notare che nel Sud Italia la percentuale che aveva votato per la monarchia era del 63,8%, mentre, in modo speculare, nel Nord d’Italia coloro che avevano votato per la Repubblica rappresentavano il 66,2%. Insomma, il Paese era fratturato geograficamente, con una importante cesura tra Nord e Sud, e in generale, nella popolazione italiana vi erano orientamenti politici, e dunque attese di sviluppo, molto differenti tra loro.

Questa divisione del Paese, che sarebbe stata sancita anche dai risultati delle prime elezioni politiche repubblicane che si tennero nel 1948, non riuscì comunque a scalfire quel desiderio condiviso di unità che si registrò nei lavori di stesura della nuova Costituzione.

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Tra il 1946 e il 1947, infatti, gli esponenti dell’Assemblea Costituente lavorarono al testo della Costituzione Italiana, che ancora oggi costituisce un testo essenziale sia per l’alto valore umanistico, sia per il carattere innovativo e antifascista di vari articoli. Una Costituzione dove è lo Stato al servizio del cittadino, e non il cittadino al servizio dello Stato, una concezione in forte antitesi rispetto a quello che era avvenuto durante il Ventennio Fascista. Un testo costituzionale, insomma, che rifletteva le ampie attese della popolazione italiana rispetto alla nuova stagione che si stava aprendo.  

L’abolizione della monarchia, dopo il referendum, e la nuova Costituzione avviarono in Italia una nuova pagina della storia nazionale. Le attese del Paese furono intercettate dalla nuova classe politica, che dopo le limitazioni imposte dal regime fascista e la dura esperienza della resistenza partigiana, riprese l’attività con rinnovato rigore.

Nella nuova Italia Repubblicana due grandi partiti di massa della Sinistra, il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista Italiano, riuscirono ad attrarre ampi consensi, forti anche del successo della Resistenza. Alla proposta politica di questi due partiti si opponeva quella di un altro importante partito di massa, la Democrazia Cristiana, un partito con forte connotazione antifascista, che si considerava laico e non confessionale, nonostante si basasse sui valori cristiani. Questi erano i principali partiti, ma l’arco della rappresentanza politica era ben più ampio e vedeva anche la presenza di partiti di ispirazione liberale o monarchica. Partito Comunista, Partito Socialista e Democrazia Cristiana furono comunque i tre grandi partiti di massa che accesero ampie passioni politiche, crearono vere e proprie reti nel tessuto nazionale, e diventarono laboratori di elaborazione e di costruzione del futuro del paese.

Qui bisogna aprire una parentesi: lo sviluppo politico e più in generale gli eventi di questa fase della storia italiana devono essere collocati in un contesto più ampio della storia del XX secolo, che è l’avvio della Guerra Fredda. In questi anni, infatti, dopo la seconda guerra mondiale, le due principali potenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, iniziarono gradualmente a suddividere il continente europeo – e in parte lo scacchiere mondiale – in sfere di influenza. Questa circostanza fece sì che in Italia, dalla metà degli anni Quaranta, si sviluppasse una profonda riflessione sulla collocazione geopolitica del Paese e sulle linee della politica estera. Sebbene l’Italia si fosse schierata con convinzione nel blocco dei paesi della Nato, a cui aderì nel 1949, tuttavia la presenza di un importante partito comunista, il più grande in Europa, e la particolare posizione geografica del Paese, contribuirono a rendere l’Italia un Paese che non si appiattì acriticamente sulle posizioni del blocco occidentale, e fecero cercare alla classe dirigente italiana percorsi di politica estera che, a volte con una certa originalità, tentarono di accrescere il peso del Paese a livello internazionale.

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In ogni caso la vita della politica italiana iniziò sempre di più ad assumere i caratteri di uno scontro bipolare, tra i sostenitori di una ferma linea di rigoroso atlantismo e anti-comunismo, la Democrazia Cristiana e i suoi alleati, e i partiti della sinistra (principalmente comunisti e socialisti) che guardavano idealmente al blocco sovietico come orientamento per le proprie linee di azione, soprattutto in politica estera. 

La competizione politica tra i partiti in Italia, e più in generale il dibattito nella società italiana a partire dalla fine degli anni Quaranta, vanno collocati in questo scenario bipolare, tenendo presente che le implicazioni di proiezione internazionale del Paese erano strettamente connesse alle scelte e alle proposte politiche che i diversi partiti avanzavano.

Per quanto riguarda l’aspetto economico, alla fine degli anni Quaranta la classe dirigente italiana riuscì a sanare la maggior parte delle ferite che la guerra aveva lasciato e ad avviare una fase totalmente nuova dell’economia italiana. Sebbene l’asse portante dell’economia italiana restasse l’agricoltura, a partire dagli anni Cinquanta si registrò un importante passaggio a una fase decisiva del processo di industrializzazione italiana che, nella storiografia, viene definito “il miracolo economico italiano” e che rivoluzionò le abitudini dei consumatori italiani.

Grazie a importanti riforme che furono varate, tutti i settori dell’economia, infatti, conobbero nel corso degli anni Cinquanta una brusca impennata: uno dei simboli di questa svolta fu l’inizio della motorizzazione di massa, avviato nel 1955 dalla FIAT con la produzione dell’utilitaria “600” – l’antenata della Zhiguli russa – immessa sul mercato a prezzi contenuti. La produzione di acciaio, a seguito dell’aumento dei consumi, conobbe un significativo aumento. Una serie di beni di consumo durevoli iniziarono a diffondersi in maniera fino a poco tempo prima impensabile tra la popolazione. Gli italiani iniziarono a comprare in massa lavatrici, frigoriferi, cucine a gas, macchine da scrivere. Il settore tessile, legato alla moda, registrò picchi di crescita oltre le più rosee previsioni. Il settore del turismo conobbe un boom.

L’alta domanda provocò un innalzamento delle importazioni, così come, dalla fine degli anni ’50 l’Italia inizio ad essere un paese esportatore a pieno titolo di prodotti finiti. Aumentò la produzione industriale e, con essa, la capacità italiana di trovare nuovi canali di approvvigionamento di risorse energetiche (soprattutto gas e petrolio). Tra i Paesi con cui l’Italia concluse nuovi accordi di collaborazione in questo campo vi fu l’URSS. Ma anche vi fu l’utilizzazione di nuove fonti energetiche, quali il metano e l’energia termica, che l’Italia riuscì a trovare e sfruttare sul proprio territorio.

L’aumento dei consumi negli anni Cinquanta fece aumentare la domanda, e con essa il tasso di occupazione. Il miracolo economico italiano, infatti, necessitava di un abbondante serbatoio di manodopera, che fu realizzato anche grazie a un importante movimento di migranti interni, che dalle zone più depresse iniziarono a spostarsi sempre di più verso i principali conglomerati urbani.

L’Italia, insomma, all’inizio degli anni Sessanta, nonostante lo sviluppo diseguale a livello regionale, era arrivata ad essere una moderna società industriale, dove il tenore di vita generale era sensibilmente migliorato. Oltre alla motorizzazione di massa, inoltre, si era ampiamente diffuso l’uso della televisione, emblema di una stagione nuova che si era lasciata alle spalle le difficoltà del dopoguerra e, simbolicamente, veniva rappresentata dal film La dolce vita di Fellini, uscito nelle sale cinematografiche proprio nel 1960. 

Nonostante l’indubbio sviluppo in tutti i settori del Paese che abbiamo schematicamente tratteggiato finora, va considerato che i costi sociali di questa importante stagione di trasformazioni furono molto pesanti. Il passaggio accelerato alla piena industrializzazione, infatti, generò fenomeni sociali nuovi e ampliò divari già esistenti, quali, ad esempio, quelli tra le regioni settentrionali e meridionali del Paese.

Pasolini fu un attentissimo osservatore di questi importanti cambiamenti che avvennero nel Paese e nella società italiana. Anche perché nella sua gioventù aveva sperimentato personalmente le difficoltà del ventennio fascista, era vissuto a Bologna, dove si era laureato nel 1945, si era trasferito per alcuni anni al nord, in Friuli, di dove era originaria la madre, e nel 1950 si era trasferito nella capitale, a Roma, che fu un po’ una città emblematica di questa nuova stagione che si era aperta.

Insomma, con la particolare sensibilità che gli era propria, Pasolini riuscì a descrivere con partecipazione e ad analizzare con finezza questo periodo, il cambiamento della società, i nuovi costumi, le attese e le speranze degli italiani, soprattutto delle fasce che erano rimaste ai bordi di questo sviluppo, soffermandosi dunque sugli aspetti più nascosti, più tragici, sui chiaroscuri di una stagione che, oltre a portare un indubbio progresso, aveva anche sollevato numerose questioni proprie dell’età contemporanea.

Vorrei ora soffermarmi su alcuni temi, che rappresentano le principali questioni sociali di questa stagione, su cui Pasolini si interrogò profondamente e che rappresentarono lo sfondo su cui si sviluppò la sua produzione culturale negli anni Cinquanta e Sessanta.

Un tema primario è quello della migrazione interna della popolazione italiana. Lo storico Paul Ginsborg ha stimato che, tra il 1955 e il 1971, circa 9 milioni di italiani sono stati coinvolti nel movimento migratorio tra le diverse regioni. Un numero altissimo, se si aggiunge agli oltre due milioni che lasciarono il Paese in cerca di fortuna, soprattutto nel Nord Europa, principalmente in Germania, Svizzera, Belgio, Francia.

Da dove si emigrava? A conferma della situazione di estremo divario di cui abbiamo parlato poco fa, i dati mostrano che ci si spostava soprattutto dalle regioni del Sud, in particolare da Calabria, Abruzzo, Molise, Sicilia e Campania. Restando in Italia, queste persone si spostavano nel cosiddetto “triangolo industriale”, cioè nella zona compresa tra Torino, Milano e Genova, motore del processo di industrializzazione del Paese. Inoltre si emigrava dalle campagne, e dunque anche da zone agricole quali il Veneto, per cercare fortuna nelle città.

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Il processo migratorio suscitò un altro importante fenomeno, che fu quello dell’ampliamento dei centri urbani, molti dei quali divennero delle vere e proprie metropoli industriali. Analogamente a quello che era avvenuto nella prima rivoluzione industriale, le città aumentarono a dismisura il numero dei propri abitanti, popolandosi di una nuova classe operaia che, nella maggior parte dei casi, si insediò in modo caotico nelle zone periferiche delle città, senza che fossero stati fatti né la necessaria pianificazione urbanistica, né opportuni piani di integrazione nella nuova realtà.

Per citare alcuni dati, tra il 1950 e il 1970, a Torino, sede degli stabilimenti di produzione FIAT, la popolazione aumentò di quasi il 50%, a Milano di oltre il 40%, e un analogo trend si registrò in altre città settentrionali.   

Un caso a sé è quello di Roma. Sebbene non fosse una città industriale, il fatto di essere capitale e sede di ministeri e istituzioni statali motivò un importante spostamento di cittadini italiani nella città, principalmente attivi nel settore terziario. Tra il 1950 e il 1970 la popolazione di Roma, infatti, crebbe di circa il 70%. 

Roma, a cui Pasolini dedicò due romanzi – Ragazzi di vita e Una vita violenta – e varie poesie, è una città emblematica della nuova stagione italiana. Alle immagini di Via Veneto descritte da Fellini nella Dolce Vita si contrappongono le tristi immagini delle “borgate”, cioè zone della periferia romana dove vivevano in condizioni precarie, quando non tragiche, intere famiglie di migranti, principalmente del sud, o di romani che per un motivo o per un altro erano rimasti ai bordi dello sviluppo economico che aveva attraversato il Paese. A Roma l’ISTAT calcola che, all’inizio degli anni Sessanta, quasi 13.000 famiglie vivevano in vere e proprie baracche. Erano i cosiddetti “baraccati”, persone che, come scriveva il sociologo Franco Ferrarotti, non avevano diritto di cittadinanza e, per definizione, erano abusivi. A Roma si contavano una cinquantina di baraccopoli distribuite nella città. 

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Le conseguenze della marginalità in cui vivevano tante persone nelle principali città italiane toccavano ogni aspetto della loro vita: povertà, assenza di alfabetizzazione, devianza, conflittualità abitativa, dipendenze. Erano mondi separati, quello borghese e quello dei proletari, dei periferici, che scorrevano paralleli e che il più delle volte non si incontravano. L’essere “periferici” non era solo una condizione economica, ma era una vera e propria condizione antropologica, culturale, sociale.

Il boom economico, insomma, aveva escluso alcune fasce della popolazione, mostrando quelle storture del sistema di sviluppo che avevano lasciato irrisolti vari annosi problemi. Insomma, si poteva parlare di “modernizzazione del Paese senza sviluppo”. Alcuni osservatori parlavano dell’esistenza, in questi anni, di almeno due o forse anche tre Italie differenti tra loro dal punto di vista economico e sociale.

Per far fronte a questi problemi i governi italiani, guidati dalla Democrazia Cristiana, che restò il partito di maggioranza in tutta questa stagione, provarono a varare alcune riforme istituzionali che incidessero in particolare sulle classi più disagiate.

Ad esempio, tra il 1949 e il 1963 fu varato un importante piano di edilizia sociale, il cosiddetto “Piano casa”, un provvedimento per la costruzione di alloggi economici per lavoratori che contribuì a migliorare la condizione abitativa di migliaia di famiglie. Sono questi gli anni in cui nascono i cosiddetti “quartieri dormitorio” in molte città italiane.  

All’inizio degli anni Sessanta, inoltre, fu nazionalizzata l’industria dell’energia elettrica e fu esteso l’obbligo scolastico fino a tredici anni.

Per supportare lo sviluppo del Meridione, nel 1950 era stata creata la “Cassa del Mezzogiorno”, un piano di investimenti – inizialmente decennale – con cui lo Stato si proponeva di migliorare le condizioni economiche e sociali delle popolazioni del Sud d’Italia.

Queste sono solo alcune delle riforme sociali che, nonostante gli squilibri appena descritti, contribuirono a porre le basi per il passaggio del paese a una fase di benessere, a un più vasto accesso della popolazione a beni di consumo che fino a pochi anni prima sarebbe stato impensabile, a una partecipazione diffusa anche delle classi più basse alla vita politica.

Al mondo di operai, periferici e di persone che erano rimaste indietro in questa stagione di sviluppo nazionale, infatti, si rivolse la proposta politica del Partito Comunista e del Partito Socialista, supportata da un ampio lavoro dei sindacati, in prima linea nella difesa dei diritti di questi lavoratori. Negli anni Sessanta, in particolare, parallelamente alla crescente industrializzazione, si aprì una vera e propria stagione di lotta sindacale che, nel corso del decennio, sfocio più di una volta in vera e propria agitazione generale della classe operaia.

I partiti della sinistra denunciavano gli eccessi del sistema capitalistico modulato dal mercato americano, e in questa battaglia erano sostenuti da un’ampia schiera di intellettuali che militavano nel PCI e nel PSI, o erano ad essi vicini, e che consideravano la propria missione al servizio della politica e della nuova fase storica che l’Italia stava intraprendendo. 

Pasolini fu uno di questi. Militante del partito comunista da giovane, continuò ad dichiararsi comunista pur senza più occupare incarichi nel partito, e soprattutto – coerentemente con il suo senso della libertà – senza farsi imbrigliare in dinamiche di partito che, già nel corso degli anni Sessanta, avevano cominciato a dimostrare tutte le fragilità che emersero poi nel 1968. Pasolini intervenne spesso in temi di attualità politica e sociale, cercando di indagare omissioni e inganni della società del benessere. Ad esempio, uno dei suoi romanzi, Petrolio (incompiuto, pubblicato postumo nel 1992), indaga la morte del presidente dell’ENI Enrico Mattei come sfondo per denunciare l’intreccio perverso tra politica, economia e società in cui si stava avvitando il Paese.

Le trasformazioni economiche, politiche e sociali degli anni Sessanta – favorite dalla fase della distensione in cui si era avviata la Guerra Fredda – generarono un cambiamento di costumi e nuove domande che furono intercettate anche dalla Chiesa cattolica, che aveva una presenza capillare nel paese attraverso le parrocchie ed era rappresentata politicamente dalla Democrazia Cristiana. I suoi valori, inoltre, venivano portati avanti sempre di più da un crescente numero di associazioni, gruppi e figure carismatiche che si interrogavano sui nuovi “segni dei tempi”.

A questo fine contribuì in modo preponderante il Concilio Vaticano II, che radunò tutti i vescovi della Chiesa cattolica nel mondo e per la prima volta anche i rappresentanti di altre confessioni cristiane, compresi gli ortodossi del Patriarcato di Mosca. Durato dal 1962 al 1965, il Concilio Vaticano II propose alla Chiesa universale di interrogarsi sul suo ruolo nella società con sguardo profetico e proteso verso il futuro, senza il timore della modernità e dell’apertura a nuovi mondi religiosi e culturali attraverso il dialogo.

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Non è questa la sede per approfondire tutte le novità apportate nella vita della Chiesa cattolica da questo Concilio ecumenico, ma per quello che ci interessa è importante notare come questo evento abbia avviato profondi cambiamenti nel rapporto tra i cristiani – compresi i partiti di ispirazione cristiana, come la Democrazia cristiana – e le nuove sfide poste dai cambiamenti politici, economici e sociali in atto.

Pasolini fu un osservatore attento anche di questi fermenti in atto nella Chiesa cattolica e della riflessione che la Chiesa aveva iniziato a fare sugli ultimi, sui dimenticati, sui problemi della contemporaneità, sulle guerre e le migrazioni… E non è un caso se, proprio nel 1964, Pasolini realizzò un film molto particolare, Il Vangelo secondo Matteo, che era una pellicola estremamente innovativa non solo per la scelta del tema, da parte di un intellettuale che si definitiva non credente, ma soprattutto per la modalità di rappresentazione, a partire dai personaggi, attori non professionisti, presi per lo più tra i sottoproletari di periferia, ma anche dall’ambientazione, la sassosa e povera Basilicata, che ricordava perfettamente i paesaggi della Galilea. Insomma, un film che voleva ricollocare la figura di Dio tra gli ultimi, quegli ultimi che anche la società italiana in quel periodo continuava ad escludere.   

Questi aspetti della società italiana, piena di contraddizioni, che ho provato a delineare in modo un po’ schematico, furono alla base, in un certo senso, di quello che avvenne nel 1968, il cosiddetto anno della contestazione. 

Il 1968 è considerato un anno mitico, per tanti aspetti controverso, che ha influenzato profondamente la Storia italiana. Infatti, dopo lo spartiacque del 1968 in Italia iniziò una stagione drammatica, quella degli anni di Piombo, dove per quasi un decennio formazioni terroristiche ideologicamente di sinistra e di destra provarono a destabilizzare lo Stato, minacciando le sue istituzioni ai più alti livelli, e portando terrore e morte in numerose città italiane.

Cosa avvenne nel 1968? In quell’anno avvenne qualcosa di “globale”: un po’ in tutto il mondo, soprattutto in Occidente, ma anche in alcuni Paesi del blocco socialista, la generazione dei giovani, soprattutto quella sua parte rappresentata dagli studenti universitari, dunque colta e benestante, si ritrovò attorno ad aspettative comuni e a un diffuso desiderio di contestare i pilastri su cui si reggeva il mondo di allora. La contestazione, dunque, divenne politica, economica, sociale, culturale. Con fervore giovanile si chiedeva un mondo diverso, sebbene non si sapesse con precisione come raggiungere questo obiettivo.

Si contestava la generazione dei genitori, il sistema dell’istruzione che escludeva troppi giovani, si contestava l’istituto della famiglia e le tradizioni sessuali “arcaiche”, si chiedevano relazioni internazionali più pacifiche, visto il pericolo legato alla diffusione delle armi atomiche e al rischio di uno scontro tra blocchi, che si era sfiorato nel 1962 durante la crisi di Cuba e si vedeva sempre più realistico con la guerra del Vietnam, un conflitto “simbolo” di quella stagione. Insomma, si contestava qualsiasi forma di istituzione e si chiedeva un cambiamento radicale.

Molti ritengono che il ’68 sia stata una fiammata di entusiasmo giovanile che poi si è spenta. In parte fu così. Eppure, dietro la contestazione di quella generazione, che peraltro corrisponde a quella degli Šestidesjatniki in Unione Sovietica, c’era un’intuizione vera: il mondo stava vivendo una stagione nuova, potremmo dire che eravamo agli inizi della globalizzazione, una stagione che necessitava di una nuova coscienza collettiva per essere affrontata. Se il benessere raggiunto era stato sconosciuto ai più fino ad alcuni decenni prima, le diseguaglianze, i problemi, del nuovo sistema internazionale non potevano essere considerate un effetto collaterale.

Il 1968 fu molto sentito in Italia, anche perché attraversò in modo trasversale il mondo giovanile. Vale a dire che, a prescindere dall’appartenenza politica, un’ampia fascia dei giovani italiani, comunisti, socialisti, cattolici, ma anche giovani senza particolari affiliazioni politiche, si ritrovarono intorno a questi temi della contestazione, provocando conseguenze importanti nella società italiana.

Non tutto fu solo la conseguenza del 1968, ma problemi, aspettative, rivendicazioni e paradossi che si erano accumulati durante la stagione del boom economico italiano si palesarono in modo molto evidente. La politica si trovò impreparata di fronte al 1968. Alcuni partiti cercarono di cavalcarlo, altri di ostacolarlo tenacemente, considerandolo un fenomeno che avrebbe avviato il declino sociale, politico e morale del paese. Vi erano, inoltre, importanti implicazioni internazionali che si temeva il movimento del ’68 avrebbe causato. 

Una cosa comunque è certa: il 1968 aveva sancito il fatto che, negli ultimi venti anni, la società italiana era profondamente cambiata, nelle sue istituzioni tradizionali, nelle attese della gente comune, nel modo di agire dei partiti.

Gli anni Settanta, dunque, si aprirono con tutto questo carico di domande e problemi irrisolti. Furono anni complessi, che mostrarono anche i limiti di un sistema partitico che si era scarsamente rinnovato e sempre di più veniva considerato scollato dai problemi reali della popolazione.

Un decennio in cui in Italia si registrò molta violenza, quella delle Brigate Rosse, quella del terrorismo di destra, ma anche quella violenza diffusa che era indice di un malessere profondo in cui si ritrovavano ampie fasce della società italiana.

Forse non è un caso che anche Pasolini fu investito da questa violenza, non politica, ma quotidiana, e ucciso in una borgata alla periferia di Roma, quella dell’“Idroscalo”, proprio da quei “ragazzi di vita” che aveva descritto in vari suoi romanzi.