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L’opera contro il mito. Pasolini, il problema
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L’opera contro il mito. Pasolini, il problema
La notorietà di Pasolini, in vita e dopo la sua tragica morte, è stata ed è enorme. Insieme ad Andrea Cortellessa, critico letterario, professore di letteratura italiana contemporanea all'Università Roma Tre, affrontiamo il tema dell’immagine di Pasolini, addentrandoci nella storia della ricezione della sua figura pubblica da parte dei suoi e dei nostri contemporanei.

La notorietà di Pasolini, in vita e dopo la sua tragica morte, è stata ed è enorme. Per denigrarlo o per esaltarlo, su di lui sono stati scritti fiumi di pagine, e questo centenario della nascita è stata l’occasione per una nuova ondata di popolarità e di iniziative. Ma a che punto è davvero l’analisi critica della sua opera? In che misura l’immagine di Pasolini nella cultura italiana d’oggi coincide con quello che l’autore ha detto, scritto, prodotto veramente? In altre parole, quanti di coloro che parlano di lui l’hanno studiato e meditato? È grande il rischio di far coincidere il Pasolini poeta, scrittore, regista, polemista, con il mito che si è creato attorno alla sua figura pubblica, scandalosa per le sue opinioni controcorrente e per il suo anticonformismo.

Insieme ad Andrea Cortellessa, critico letterario, professore di letteratura italiana contemporanea all'Università Roma Tre, affrontiamo questo tema, addentrandoci nella storia della ricezione di Pasolini da parte dei suoi e dei nostri contemporanei.

 

Andrea Cortellessa

31 maggio 1975. Bologna, Galleria Comunale d’Arte Moderna. Va in scena una di quelle che Fabio Mauri chiama «azioni complesse» (quelle che secondo lui, cioè, non si possono ascrivere né al teatro né all’installazione né alla performance, ma sono un po’ tutto questo insieme). L’artista ha chiesto a un suo vecchio amico ben noto al pubblico, Pier Paolo Pasolini, di prestarsi (come qualche tempo prima ha già fatto il regista ungherese Miklos Jancsó) a fare da “schermo vivente” per una delle sue “proiezioni” (dall’allusivo significato non solo psicoanalitico). Al pubblico dovrà mostrare il petto come un fucilato di Goya, con la camicia dallo sparato più bianco possibile: e su quella superficie luminosa, come su uno schermo vivente, scorreranno le immagini di un capitolo altrettanto allusivamente scelto dalla sua filmografia, Il Vangelo secondo Matteo. Dell’«azione complessa» di Mauri ci restano solo alcune foto di scena, per così dire; il suo titolo è Intellettuale, un titolo che allude senz’altro al più celebre degli Scritti corsari che da qualche tempo Pasolini va pubblicando, con sommo scandalo, sul «Corriere della Sera» diretto da Piero Ottone: quello che comincia «Io so» («Io so perché sono un intellettuale» ecc.) e che sulle vicende più oscure della storia d’Italia recente getta un raggio di luce tenebrosa, che di nulla «aveva le prove» ma tutto dichiarava di sapere.

L’episodio si può leggere in tanti modi, si capisce; ma a posteriori trattare l’icona di Pasolini come uno schermo, da parte di Mauri, denota in lui una vis profetica non minore di quella poi tante volte attribuita, più o meno sensatamente, al suo amico intellettuale. Da allora infatti Pasolini è sempre stato fatto oggetto delle proiezioni più diverse e contrastanti: a partire dal trauma inelaborato della sua tragicissima morte, le maniche di quella camicia sono state tirate in direzioni talora pretestuose («cosa ne avrebbe detto Pasolini» è l’attrezzo più frusto, fra lo ieratico e lo iettatorio, del polemichese da gazzetta) e, quel che più fa specie, a prescindere dalla sua opera. Chi ha letto davvero i suoi capolavori di scrittore (dalle prime poesie in friulano ai saggi di Empirismo eretico, e a un po’ tutto quello che ha scritto negli ultimi mesi frenetici, a partire dall’iper-romanzo e non-romanzo “doppiamente incompiuto” che è Petrolio), fra quanti oggi ne fanno un mito? Quella del «mito», ha scritto il suo maggiore interprete Walter Siti, è appunto la dimensione in cui «leggere effettivamente le opere di Pasolini non è affatto necessario, né è necessario confrontarsi con la critica che ha cercato di capirle». 

La prima, irresistibile componente di questo mito è quella della «poesia assassinata dalla società». E Siti indica la «pietra angolare» di questo «edificio mitico» nelle parole pronunciate alla sua morte dall’amico Alberto Moravia. Ce le ricordiamo tutti; chi non dovesse farlo se le può andare cercare su YouTube. 5 novembre 1975, Campo de’ Fiori, Roma. Quella mattina livida si tiene la cerimonia funebre per Pasolini, il cui cadavere orribilmente sfigurato era stato rinvenuto tre giorni prima, il 2 novembre, all’Idroscalo di Ostia. Il giorno dopo le esequie vere e proprie saranno officiate nel paese di sua madre, Casarsa della Delizia in Friuli, nel cui cimitero le sue spoglie verranno tumulate. (E già questo doppio rito ci introduce al tema fondamentale di tutto il percorso di Pasolini, appunto quello del doppio.) Dice dunque Moravia, anzi lo urla: 

«Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo (applausi). Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe esser sacro»1.

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Le parole di Moravia sintetizzano a perfezione il ruolo sacrificale e l’aura mitica, appunto, per tradizione associati all’icona del poeta. Pasolini è il «Poeta per antonomasia», sferza Siti, perché «i Poeti, si sa, devono essere assassinati». Infatti il mito che lo ammanta non lo considera «un poeta concreto […] ma una “figura poetica”»: «non importa quello che ha scritto. Pasolini ci regala la soddisfazione di amare la poesia senza la noia di leggerla»2. Occorre invece sottolineare con forza – lo ha scritto una volta Franco Fortini – che «Pasolini non è la poesia». Anche perché nella sua esperienza breve e bruciante, come vedremo, ha praticato tante differenti forme di poesia che, a una personalità diversa dalla sua, sarebbero apparse assolutamente incompatibili. Per rispettare davvero l’investimento esistenziale che Pasolini ha devoluto alla scrittura in versi, sarà invece necessario leggere con attenzione quello che in versi lui ha davvero scritto, dall’inizio alla fine, sforzandosi di distinguere i capolavori – e non sono pochi – dai tanti vicoli ciechi e sentieri interrotti nei quali, spesso, s’è inoltrato: con lucidità non sempre pari alla sua proverbiale generosità. È quello che cercherò di fare in una delle prossime conversazioni. 

Nel secolo di cui parla Moravia, il nostro Novecento cioè, bisognerà pensare piuttosto a Montale – non a caso diviso da Pasolini da una forte e reciproca antipatia – come al modello di autore tutto votato all’affinarsi del proprio strumento e che davvero ha posto la poesia al centro della sua vita, per non dire in luogo di essa. Ha scritto ancora Siti: «invece di puntare sul testo poetico come organismo assoluto, che con la propria concentrazione assorbe e fa implodere tutta l’esperienza circostante», come appunto il Montale “alto” delle Occasioni e della Bufera, Pasolini allestisce «una mappa poetica che, per voler essere sempre più dettagliata, tende a coincidere col territorio»3. Nulla di più distante insomma, dal vivere «al cinque per cento» di Montale, dell’esasperato vitalismo, della mai appagata fame d’esperienze di Pasolini. Per stroncare d’Annunzio – che era stato un riferimento certo nella sua giovinezza, ma che Pasolini distoglierà da sé tutte le volte, e non saranno poche, che gli verrà accostato – il vecchio Benedetto Croce lo aveva definito un «dilettante di sensazioni». Ma sarebbe ingiusto impostare in questi termini il problema di Pasolini, che va ben al di là delle coordinate morali, e diciamo pure moralistiche, di questa vecchia invettiva idealista.

Certo, Pasolini è stato un provocatore; ma lo scandalo che ha sempre accettato e anzi preteso di rappresentare non è mai stato fine a sé stesso, o al mero riflesso di luce che poteva produrre (ed effettivamente produceva) sul suo inguaribile Narciso. A volte in modo sorprendentemente ingenuo, altre volte assai meno, l’esporsi di Pasolini ha sempre voluto provocare reazioni in chi più o meno malevolmente lo osservava, ed era anzi da lui non meno che ossessionato, che risultassero rivelatorie del contesto culturale o politico in cui si trovava a operare (ne parlerò in una delle prossime conversazioni, quella dal titolo Esporsi, contrapporsi). Per dirla insomma con una metafora cara a un suo arcinemico, Edoardo Sanguineti, i testi di Pasolini assolvono alla funzione di test. Lo hanno fatto al tempo del suo autore, continuano a farlo ancora adesso. 

Oppure diciamola alla maniera di Gilles Deleuze: che al cinema di Pasolini ha dedicato pagine straordinarie, negli anni Ottanta, nel suo saggio L’immagine-tempo. Si sofferma in particolare, il filosofo, sui due film che gli agiografi del Pasolini-mito più fanno fatica a digerire; e che sono invece non a caso, se non i suoi più belli, senz’altro i più importanti: Teorema e Salò. Entrambi, dice Deleuze, «si presentano come dimostrazioni geometriche in atto»: si tratta di «cinema della crudeltà», per dirla à la Artaud, ma non perché in Salò vengano mostrate delle atrocità insostenibili, bensì per la loro forma «deduttiva e automatica» (diceva appunto Artaud che crudele è quell’opera che «non racconta una storia, ma sviluppa una serie di stati dello spirito che si deducono gli uni dagli altri come il pensiero si deduce dal pensiero»)4. Tuttavia l’attitudine dimostrativa che accomuna i due film (associati per questo aspetto dallo stesso Pasolini, citando Artaud, all’inizio delle riprese di Salò)5 conosce secondo Deleuze due esiti molto diversi fra loro: il teorema e il problema. Mentre «il teorema», ancorché col massimo rigore, si limita a «sviluppare rapporti interni» a un sistema dato, il «problema fa intervenire da fuori un avvenimento» che «determina il “caso”»: sino al punto in cui quel sistema chiuso viene costretto a modificarsi. È esattamente quanto avviene – a dispetto del titolo – nel film di Pasolini che s’intitola Teorema. La figura simbolica dell’Ospite rappresenta appunto, secondo Deleuze, una forza del «fuori»: «figura iper-spaziale» indeterminata, e dunque assoluta, che irrompe nel sistema chiuso dell’ordine borghese e lo fa esplodere. Al contrario, in Salò «non esiste più problema perché non esiste più fuori»: l’ultimo film da lui realizzato «è un puro teorema morto, un teorema della morte, come voleva Pasolini, mentre Teorema è un problema vivo»6.

Si può certo discutere la conclusione del filosofo su Salò, ma è difficile negare che più in generale l’intera opera pasoliniana rappresenti per noi, usando la sua terminologia, un «problema». L’instancabile volontà di Pasolini di evadere dal territorio tradizionalmente ascritto ai generi da lui di volta in volta praticati – siano essi il romanzo, il teatro, appunto il cinema o anzitutto, si diceva, il core-business rappresentato dalla poesia – senz’altro lo ha portato, più e più volte, a sbagliare strada (come segnala lui stesso, del resto, lasciando bruscamente a mezzo lavori ai quali in precedenza, magari, aveva associato la massima importanza); ma questo, che Pasolini chiamava sperimentalismo, non è altro che la sua pervicace volontà di alludere, con la sua opera, a quanto quell’opera eccede: al suo «fuori» appunto, per dirla con la categoria di Maurice Blanchot fatta propria da Deleuze.

Per questo, della straordinaria teoria del cinema di Empirismo eretico, che di Pasolini credo sia il libro più sottovalutato (una teoria del cinema o meglio, col cinema: proprio come la filosofia che fa Deleuze, nell’Immagine-tempo e nel libro gemello L’immagine-movimento, non è “filosofia del cinema”, o peggio “sul cinema”, ma ben più radicalmente filosofia col cinema), l’aspetto in fondo meno interessante è quello al quale invece Pasolini attribuiva maggiore importanza, cioè la vexata quæstio del «realismo». Il suo cinema pone una questione più radicale, che è appunto una questione filosofica; ed è quella che Deleuze traduce in questi termini: «la domanda non è più se il cinema ci dia l’illusione del mondo, ma in che modo il cinema ci restituisce la credenza nel mondo»7. Questa è per Deleuze la forza del “fuori”: «non crediamo più a un tutto come interiorità del pensiero, anche aperto, crediamo a una forza del fuori che si scava, ci afferra e attira il dentro»8.

Ed è questo stesso il motivo per cui – come del resto per ogni autore degno di questo nome, ma a maggior ragione avendo a che fare con chi sulla sua opera si è espresso con l’insistenza di Pasolini – bisogna fare di tutto per evitare di restare intrappolati, tautologicamente, nelle categorie da lui stesso predisposte per leggerlo. Se vogliamo davvero “usare” Pasolini, invece, dobbiamo ri-acquisirlo come “problema”: tanto per il “fuori” che entra in relazione con la sua opera (ingenerando i “problemi” strutturali e ideologici che quest’opera, di volta in volta, mostra a giorno), tanto per il “fuori” che essa, da ultimo, rappresenta per noi. Solo così potremo fare di Pasolini il nostro Ospite: sempre che siamo interessati, beninteso, a farci attraversare dal “problema” che la sua opera rappresenta. Se non adotteremo questa doppia ottica, resteremo inevitabilmente preda delle sue retoriche, cioè prigionieri del suo “mito”. 

Ed è appunto quanto s’è verificato, quasi sempre, nei decenni che ci separano dal suo traumatico congedo. Quella che oggi risponde al suo nome è allora e in molti sensi, per dirla con un geniale concetto di Furio Jesi, una «macchina mitologica»9: dispositivo ideologico in cui colui che elabora il mito è lo stesso che lo consuma e – con reversibilità micidiale che ricorda la macchina di tortura della Colonia penale di Kafka – ne viene altresì consumato. 

Senza probabilmente conoscere questo paradigma, un altro intellettuale che da Pasolini era molto attratto (a suo tempo gli aveva procurato materiali importanti per la preparazione di Petrolio), lo psicoanalista Elvio Fachinelli, nel ’78 scrisse un saggio, dal titolo Cultura e necrofagia, che senza citarlo esplicitamente si applica a perfezione, mi pare, al “caso” in oggetto. La spregiudicatezza con cui l’industria culturale si appropria di determinate figure “proiettive” ricorda a Fachinelli quella con la quale in certi «gruppi arcaici» si cerca un legame col «mondo degli antenati […] attraverso la negazione della morte individuale». Questi veri e propri «morti-viventi» svolgono «una funzione normativa nei confronti del polo dei viventi», e nel mondo moderno questo pensiero mitico è ereditato dalla «logica economica dell’industria»: quella che letteralmente si nutre di quei cadaveri insepolti in una «situazione necrofagica»10. La società può comportarsi in questo modo a dispetto, e a ben vedere proprio in virtù, del ruolo di vittima sacrificale e capro espiatorio a suo tempo rivestito da quella figura insepolta (lasciando da parte la questione, al momento indecidibile, di come siano andate le cose, davvero, quella notte da tregenda all’Idroscalo di Ostia).

Si potrebbe dire che a volte anche Pasolini, il quale faceva parte integrante di quella medesima industria culturale le cui storture non mancava di denunciare (come gli rimproveravano amici più “apocalittici” di lui), abbia trattato nello stesso modo lo sterminato patrimonio della cultura di cui avido s’era impossessato in giovanissima età (emblematico il progetto, col quale attorno al 1940 si può dire cominci il suo percorso, di fare cogli amici di Bologna – coi quali tanto tempo dopo ne farà una storica chiamata «Officina» – una rivista invece mai realizzata che avrebbe dovuto intitolarsi «Eredi»). Secondo Siti, che fra le sue carte – nelle more dei ben dieci «Meridiani» dei suoi scritti, da lui curati – ha guardato talvolta con una punta di malizia più di quanto al suo ruolo spettasse, un altro aspetto discutibile del Pasolini “mitico” sarebbe appunto stata la sua disinvoltura culturale: «“usava” la cultura, rubacchiava qua e là […]; era rimasto un “barbaro”, e se ne vantava; per lui la cultura era una pellicola che si poteva staccare dalla vita a piacimento. Esattamente come sta facendo il desiderio consumistico; in questo senso, Pasolini non era un avversario del consumismo, ne era un seguace omologo se non addirittura un modello»11. Parole, queste ultime, in cui l’agone con l’angoscia dell’influenza avrà forse spinto Siti a confidare troppo nella sua indiscutibile intelligenza. È un fatto però che, nei suoi periodi più vorticosi, certe volte quella cultura – quella che nella Religione del mio tempo chiama La ricchezza – Pasolini non si peritava di farla letteralmente a brani per usarla ai propri scopi con disinvoltura, è il caso di dire, “crudele”. In questo anticipando, con tutta evidenza, certe movenze del postmodernismo di là da venire (eloquente l’apologo della Ricotta, col tableau vivant ispirato alla Deposizione di Rosso Fiorentino e a quella di Pontormo ma attribuito all’avatar interpretato, nel mediometraggio, da un tronfio e ispiratissimo Orson Welles…). 

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E in effetti, se si è resa possibile tutta l’exploitation consumatasi sul suo nome, è dipeso anche da lui. Dalla sua volontà di stupire tutti, prima di tutti sé stesso, con la più proteiforme versatilità (quello che, ai tempi di «Officina», fra il ’56 e il ’59, e poi in Passione e ideologia, aveva battezzato «neo-sperimentalismo»): spaziando da scrittore in tutti i possibili generi, e poi ulteriormente “espandendosi” nella musica, nel teatro, soprattutto nelle arti visive sua originaria vocazione. L’approdo al cinema, con Accattone nel ’61, fu inevitabile e quasi tautologico.

Sicché, per restare solo al cinema, possono rivendicare l’eredità di Pasolini autori diversissimi: dai citazionisti più estetizzanti agli indignati in denuncia permanente effettiva, dai vitalisti più selvaggi ai concettuali più cerebrali, dai più violenti ai più sdolcinati. Ciascuno “ritagliando”, di quel corpus, il brano che meglio gli si confaccia. Per esempio alla stessa interpretazione di Intellettuale si possono attribuire significati assai difformi. Col suo inelaborato senso del sacro, immaginava Fabio Mauri che la luce del Vangelo proiettata sul corpo del suo autore ne facesse un alter Christus («quando si andava a cena con Pasolini», ha raccontato una volta l’artista, «sembrava di cenare con Cristo»): e le circostanze della morte dell’amico, appena cinque mesi dopo, gli parranno la più atroce delle conferme. Altrettanto legittimamente, però, quell’episodio permette di assimilare lo sperimentalismo sfrenato dell’ultimo Pasolini alle esperienze più concettuali della performance e dell’installazione d’avanguardia (quelle che lui esecrava, negli scritti pubblici di quegli stessi anni, in toni persino fobici).

Forse il compagno di strada ideale di Pasolini era l’amico che non smetteva mai di attaccarlo con toni da nemico vero, senza quartiere. Come lui Franco Fortini era affetto dalla «sineciosi» che gli attribuiva, cioè dallo «scandalo del contraddirsi» rivendicato dalle Ceneri di Gramsci, ma più alla radice da una tendenza “manieristica” a voler tenere insieme quanto più, dall’insieme, fa sortire scintille. E suggeriva, in uno dei pezzi raccolti in quel libro mirabile (con ogni probabilità, e per ironia della sorte, il suo capolavoro) che è Attraverso Pasolini, che «per preservare il meglio di Pasolini bisogna […] disaggregarlo», «stabilire un canone di eminenza», e insomma metter mano a una severa «antologia critica dell’opera pasoliniana». Cioè esattamente il contrario di quanto non si è smesso di fare in questo quasi mezzo secolo che ormai ci separa dalla sua scomparsa. 

Ha detto di recente Siti, non senza una spietatezza un po’ dimostrativa, che in effetti oggi, «a parte l’accensione per il centenario della nascita», il mito Pasolini comincia a sua volta a ingiallire: «le questioni per cui si è straziato hanno perso attualità – i poeti non sono più simbolo di nulla, all’omologazione culturale e alla mutazione antropologica ci siamo ormai talmente dentro che chi la temette sembra un reperto archeologico, l’omosessualità è (almeno a parole) sdoganata». E se «la visibilità che aveva cercato» Pasolini risulta «appassita» – conclude Siti, in questo caso, più che condivisibilmente – «è arrivato il momento di leggerlo»12.

Contro il mito Pasolini, la macchina infernale in cui lui stesso ha fatto in modo di trasformarsi restandone infine vittima (furono le ruote della sua stessa Alfa-feticcio a schiacciargli definitivamente il fiato in gola), oggi va dunque rivendicata la sua opera. Quelle che «è arrivato il momento di leggere» sono, per essere più precisi, le sue singole opere. Il che naturalmente non risolverà il conflitto che, da quando era vivo, ha sempre suscitato Pasolini (come Cristo, davvero, venuto con la spada). Anzi: ciascuno di noi si vorrà impossessare solo d’una parte del lascito, di una sua reliquia più o meno cospicua. Per quanto mi riguarda, e a dispetto della voga (ora forse un po’ declinante, per fortuna) di fare di lui un artista fauve e quasi naif, che «getta il suo corpo nella lotta» ed è portatore di una «parola diretta» antidoto dirompente contro il postmodernismo venuto dopo di lui, il Pasolini che oggi più ci serve è proprio l’artista-intellettuale, “complesso” e in senso lato concettuale, che a posteriori pare difficile sottrarre dalla cornice storica del postmoderno, al quale Mauri aveva dato corpo colla sua «azione complessa» alla Galleria di Bologna. 

Era quella, del resto, un’immagine dialettica. All’altro capo della sua traiettoria, aveva raccontato Pasolini non molto tempo prima in uno dei pezzi che verranno raccolti dopo la sua morte in Descrizioni di descrizioni, c’era una «piccola aula (con banchi molto alti e uno schermo dietro la cattedra)» all’Università di Bologna: dove nell’anno accademico 1941-42 Pasolini seguiva incantato le lezioni di un professore che segnava a dito le immagini di Masaccio sullo schermo alle sue spalle. «Un’isola deserta, nel cuore di una notte senza più una luce», così la ricorda Pasolini: «un’apparizione» e anzi, per lui, «semplicemente la Rivelazione». Quel professore si chiamava Roberto Longhi e quelle peritose diapositive in bianco e nero, nella memoria, erano per Pasolini semplicemente «cinema»13. La portata della lezione di Longhi sul Novecento letterario italiano è stata ricostruita di recente da Marco Bazzocchi14, e infinite pagine sono state dedicate alla devozione di Pasolini nei confronti della grande tradizione figurativa, da lui non meno sacralizzata di quella letteraria. «Solo nella tradizione è il mio amore», aveva declamato coi versi di Poesia in forma di rosa Orson Welles nella Ricotta; ma pochi versi dopo lo stesso testo proclama con orgoglio di essere «più moderno di ogni moderno». 

Un Pasolini moderno, si capisce, è un Pasolini diverso da come si vedeva e pretendeva di essere visto lui stesso. Ma è anche un autore finalmente affrancato dal suo santino ormai logoro, dalla macchina mitologica che s’è impossessata di un’opera molto più ricca e strana di come, finora, la si è per lo più banalizzata. Certo quel raggio di proiettore col quale Mauri aveva messo in ombra il suo volto, al contempo facendo splendere il suo corpo di luce, aveva avuto per esito la trasformazione dello stesso Pasolini in un’immagine: in una sua immagine. Così realizzando in forma spettrale quella transustanziazione, quel trasumanar del corpo in opera, dell’opera in corpo, che da sempre era il suo ideale. Davvero una rivelazione. Forse non troppo diversa doveva essergli apparsa, tanto tempo prima, l’icona luccicante del maestro: nella stessa città, in quell’aula oscura e abbagliante.

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1 https://www.youtube.com/watch?v=UZPCmfgZSRs&t=66s (da ’28” a ’46”).

2 Walter Siti, Il mito Pasolini [2006], in Id., Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini, Rizzoli, Milano 2022, p. 220. 

3 W. Siti, L’opera rimasta sola [2003], ivi, p. 93

4 Cit. in Gilles Deleuze, L’immagine-tempo [1985], traduzione di Liliana Rampello, Ubulibri, Milano 1989, pp. 194-5.

5 Pier Paolo Pasolini, Il sesso come metafora del potere, «Corriere della Sera», 25 marzo 1975; in Id., Per il cinema, a cura di W. Siti, F. Zabagli, 2 voll., vol. II, Mondadori, Milano 2001. pp. 2063 sgg.

6 G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., pp. 195-6.

7 Ivi, p. 203.

8 Ivi, p. 234.

9 Cfr. Furio Jesi, L’accusa del sangue. La macchina mitologica antisemita [1973], introduzione di David Bidussa, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

10 Questa e le precedenti citazioni in Elvio Fachinelli, Cultura e necrofagia [1978], in Id., Al cuore delle cose. Scritti politici (1967-1989), a cura di Dario Borso, DeriveApprodi, Roma 2016, pp. 159-63. Su Pasolini si veda il saggio precedente Le cucine del futuro [1974], ivi, pp. 104-5.

11 W. Siti, Il mito Pasolini, cit., p. 222.

12 W. Siti, Quindici riprese, cit., p. 219.

13 Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., vol II, Mondadori, Milano 1999. p. 1977.

14 Cfr. Marco Antonio Bazzocchi, Con gli occhi di Artemisia. Roberto Longhi e la cultura italiana, il Mulino, Bologna 2021.