Quali sono i luoghi significativi nell’opera di Pasolini? In questo podcast non si parla tanto dei luoghi legati alla sua biografia, ma soprattutto di quelli che sceglieva come ambientazione dei suoi romanzi e dei film. Cosa trovava Pasolini in questi luoghi così diversi? C’è uno stretto legame tra il significato delle sue opere e la cornice entro la quale si svolgono. Dalle borgate romane degli anni ’50 alla Tanzania, dallo Yemen all’India, dalle banlieue parigine al Sud dell’Italia: ad ogni suo set cinematografico, ad ogni sfondo dei suoi romanzi o dei suoi poemi corrisponde una fase dell’elaborazione del pensiero pasoliniano su temi politici, antropologici, sociali. Ci addentriamo in questo intreccio di aspetti etici ed estetici nell’opera di Pasolini guidati da Andrea Cortellessa, critico letterario, professore di letteratura italiana contemporanea all'Università Roma Tre.
Andrea Cortellessa
Scrivendo di Salvatore Di Giacomo, autore all’inizio del Novecento di poesie in squisito dialetto napoletano, in un articolo del ’74 poi raccolto in Descrizioni di descrizioni, butta lì Pasolini che manca ancora un Ernesto de Martino o un Claude Levi-Strauss delle «culture popolari urbane», un’antropologia cioè che sappia analizzare le periferie delle grandi città d’Occidente «con la stessa precisione e assolutezza» con la quale i grandi studiosi della disciplina hanno saputo descrivere usi e costumi delle plebi rurali del Mezzogiorno d’Italia o delle culture del Sud del mondo1. In futuro questi antropologi in effetti sarebbero arrivati, da Dick Hebdige a Marc Augé, ma è chiaro come qui Pasolini alluda a sé stesso e all’epopea delle borgate dei romanzi e dei suoi primi film “romani”: una produzione ormai lontana per lui, non solo nel tempo, ma che nel «qualcosa di scritto» al quale sta lavorando in quel momento, Petrolio, come vedremo tornerà seppure in forma stravolta. Ed è significativo che, come si vede, vengano qui esplicitamente associate le culture popolari urbane a quelle di paesi lontani, «isolati e puri», come definisce Pasolini quelli studiati da Levi-Strauss.
Per accomunare realtà così diverse (essendo ben consapevole che nel contesto urbano, a differenza che nei repertori tradizionali dell’antropologia di allora, la «cultura dominante è intervenuta continuamente con violenza»), Pasolini usa con una certa insistenza un’espressione oggi desueta, «subtopia»: lo fa nel Progetto di opere future di Poesia in forma di rosa2, nella famigerata poesia Il Pci ai giovani!! («i poliziotti sono figli di poveri. / Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano») e in un’importante intervista del ’69 a Ferdinando Camon sulla quale tornerò fra poco (Saggi sulla politica 1642). «Subtopia» è un termine della sociologia anglosassone degli anni Cinquanta e designa quelle aree suburbane che si andavano formando attorno alle grandi metropoli, inurbamenti che attiravano grandi masse di popolazione ex contadina3. Come suo costume, Pasolini deforma il concetto a proprio uso e consumo, intendendo con questo termine invece proprio gli ambienti di provenienza, subalterni culturalmente e socialmente, di quelle masse. La parola ai suoi occhi ha il pregio di alludere a un sotto tanto in senso sociale che geografico, nonché magari psicoanalitico, e poi soprattutto di alludere a un’“utopia” di riscatto e rivoluzione.
Gli anni Sessanta si aprono con la poesia Frammento alla morte, nella Religione del mio tempo del ’61, che si conclude con l’invocazione all’«Africa! Unica mia / alternativa…» (Poesie 2003, I, 1050). In quel decennio il tema è assai sentito da Pasolini, che lo sintetizza nell’espressione «l’uomo di Bandung»; così s’intitola una poesia del ’64 rimasta dispersa (Poesie 2003, I, 1305-13), ma l’anno prima la spiega già ad Alberto Arbasino in una delle conversazioni qualche anno dopo raccolte in Sessanta posizioni 4: fa riferimento alla città indonesiana nella quale nel ’55 s’erano date convegno le nazioni africane e asiatiche – quelli che nell’Uomo di Bandung Pasolini chiama i «regni della fame» (Poesie 2003, I, 1309) – per condannare un colonialismo europeo a quell’altezza tutt’altro che debellato, come in quegli anni dimostravano clamorosamente le stragi in Algeria che si sarebbero concluse solo con l’indipendenza di quel paese, promulgata nel ’62. In quello stesso anno Pasolini incontra per la prima volta l’intellettuale francese che più si era speso per la causa algerina, Jean-Paul Sartre5: a lui si rivolge il testo che in termini più visionari ed enfatici Pasolini abbia dedicato al tema “coloniale”, Profezia (Poesie 2003, I, 1285-91), tre anni dopo incluso nel volume che – su suggerimento appunto di Sartre, che gli aveva raccontato quella storia – ne riprende il titolo, Alì dagli occhi azzurri. «Alì» è «uno dei tanti figli di figli» che «scenderanno da Algeri» e «sbarcheranno a Crotone o a Palmi, / a milioni, vestiti di stracci / asiatici, e di camice americane» e verranno accolti dai «Calabresi» a braccia aperte, come «vecchi fratelli»; questi «popoli barbari» affratellati «usciranno da sotto la terra per rapinare – / saliranno dal fondo del mare per uccidere, – scenderanno dall’alto del cielo / per espropriare – e per insegnare ai compagni operai la gioia della vita […] / – distruggeranno Roma / […] poi col Papa e ogni sacramento / andranno come zingari / su verso l’Ovest e il Nord / con le bandiere rosse / di Trotzky al vento…».
Non c’è dubbio che a questi toni si faccia preferire la sospensione carica di tensione sulla quale si conclude il racconto «da farsi», Rital e raton, che nello stesso libro del ’65 è a sua volta dedicato all’alleanza vagheggiata fra i sottoproletari delle borgate romane e i ragazzi algerini nelle banlieues di Parigi. Ma è indicativo, Profezia, della volontà pervicace di Pasolini di tenere insieme, nella stessa prospettiva rivoluzionaria, urgenze ed esigenze così distanti, e a ben vedere incompatibili, fra loro. Che ci sia del resto una sovrabbondante memoria d’Europa, nella visione un po’ oleografica che Pasolini aveva dei Sud del mondo – a dispetto dei tanti viaggi da lui fatti, e dei tanti testi che quei luoghi gli ispirarono – lo dimostra in modo eloquente la riscrittura pedissequa che del più celebre canto della Resistenza europea, Libertà di Paul Éluard, fa nel mediometraggio del ’63, La rabbia, in gran parte dedicato appunto alle atrocità in Algeria6:
Sui nomadi del deserto
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sui braccianti di Medina
sui salariati di Orano
sui piccoli impiegati di Algeri
scrivo il tuo nome.
Sulle misere genti di Algeria
sulle popolazioni analfabete dell’Arabia
sulle classi povere dell’Africa
sui popoli schiavi del mondo sottoproletario
scrivo il tuo nome
libertà!
Nell’intervista che ricordavo prima a Ferdinando Camon, nel ’69, Pasolini dice di «rinnegare» la Profezia di Alì dagli occhi azzurri, improntata al suo «vecchio motivo […] dell’idealizzazione dei contadini del Terzo Mondo» (Saggi sulla politica, 1638), ma non perché smentita dai fatti bensì in quanto, sostiene, «divenuta merce comune» fra i giovani, e proprio per questo secondo Pasolini non è più «rivoluzionaria» (ivi, 1644) (siamo in effetti, a quest’altezza, nel pieno del diffondersi in Europa della prospettiva insurrezionalista ispirata al pensiero, ma anche all’azione concreta giunta due anni prima sino al sacrificio, di Ernesto “Che” Guevara). Aggiunge di essersi reso conto nel frattempo che le «subtopie […] sono molte, concorrenti, consignificanti e contraddittorie», e dunque «le cose sono ambigue, equivoche» (ivi, 1642), ma insiste a sostenere che «non c’è differenza fra un villaggio calabrese e un villaggio indiano o marocchino, si tratta di due varianti di un fatto che al fondo è lo stesso» (ivi, 1638).
Di quello che oggi si chiamerebbe “eurocentrismo”, della prospettiva decoloniale di Pasolini, è eloquente pure lo sviluppo del progetto – decisivo, si capisce, nel suo percorso – del Vangelo secondo Matteo: che nelle premesse doveva essere appunto un “esplosivo” manifesto anticolonialista (non a caso venne scelto, per impersonare Cristo, un giovanissimo militante antifranchista, il catalano Enrique Irazoqui) e doveva essere girato nei luoghi stessi del racconto evangelico, in Palestina; ma che, dopo le violente accuse di vilipendio alla religione fatte l’anno prima al mediometraggio La ricotta, cambiò decisamente rotta e venne infine girato in un Sud certo “poeticissimo” ma anche assai nostrano come, nella maggior parte delle sue scene, i Sassi di Matera. Alla sua uscita comunque, nell’autunno del ’64, le gerarchie culturali della Chiesa di Roma – col Concilio Vaticano II allora in pieno svolgimento – lo accettarono quasi all’unanimità (in Francia una discussione pubblica si tenne, il 16 novembre di quell’anno, nella Cattedrale di Notre-Dame alla presenza di migliaia di persone, conclusa dall’organo possente che diede inizio a una solenne messa cantata), mentre il film venne preso a contraggenio, per lo più, dalla critica marxista. Fra i pochi a difenderlo, in questo campo, vi fu appunto Sartre: sulla terza pagina dell’«Unità», alla vigilia di Natale, uscì un lungo reportage di Maria Antonietta Macciocchi – l’intellettuale inviata del giornale comunista a Parigi, che nel ’60 aveva chiamato Pasolini a collaborare alla rivista da lei diretta, «Vie nuove» – in cui si raccontava in toni vivaci l’incontro fra i due intellettuali, e la loro discussione appunto sul Vangelo 7. Sartre ricorda come fosse stata intenzione di Pasolini di «fare il suo Vangelo in Algeria, tra i sottoproletari», per poi aderire in pieno all’idea, che gli attribuisce, di usare «la storia di Cristo» come grimaldello per demistificare un «razionalismo» che «manca di una critica del razionalismo».
Su queste basi Pasolini progetta qualche anno dopo un affresco cinematografico tutto da girare nei Sud del mondo: cinque episodi che avrebbero dovuto recare il titolo complessivo di Appunti per un poema del Terzo Mondo e si sarebbero dovuti ambientare in India, nei paesi arabi, in Sud America e nei ghetti neri degli Stati Uniti. Come per tanti altri suoi progetti ambiziosi, non se ne fece niente. L’episodio che andò più vicino a realizzarsi fu il primo, quello africano intitolato Il padre selvaggio, che avrebbe dovuto ambientarsi nel Congo, paese all’epoca devastato da una cruentissima guerra civile (durante la quale, nel ’61 a Kindu, vennero trucidati tredici aviatori italiani appartenenti al contingente di pace ivi inviato dall’ONU). Nel ’62 Pasolini ne aveva scritto il soggetto (che uscirà in volume da Einaudi nel ’758), all’indomani del suo primo viaggio in Africa (per la precisione in Kenya, il paese in cui era rimasto a lungo prigioniero suo padre alla fine della guerra), ma al momento di iniziare le riprese il produttore, Alfredo Bini, si spaventò per le polemiche in corso sull’altro film del suo scomodo protegé, La ricotta, e rinviò sine die il progetto.
I successivi Pasolini li concepì allora, seguendo la poetica dell’opera «da farsi» messa a fuoco in quegli anni fra Alì dagli occhi azzurri e i saggi poi inclusi in Empirismo eretico, in forma di «appunti»: i quali mostrano agli spettatori, cioè, materiali preparatori di norma relegati alla fase produttiva di un film come le riprese fatte nei «sopralluoghi» e le interviste realizzate nell’occasione, così elevandole alla dignità di “testi” cinematografici autonomi. È il caso degli Appunti per un film sull’India, girati da Pasolini tra la fine del ’67 e i primi giorni dell’anno seguente e presentati alla mostra del cinema di Venezia del ’68, sulla base di una suggestione regalatagli da Elsa Morante (insieme a lei e a Moravia era già stato in India, Pasolini, tra il ’60 e il ’61, e ne aveva tratto il libro L’odore dell’India, pubblicato nel ’62 “cucendo” una serie di reportage pubblicati sul quotidiano «Il Giorno»); o degli Appunti per un’Orestiade africana, girati nel ’68 in Tanzania (anche in questo caso non lontano da una terra, il Biafra, allora funestata da spaventose guerre civili e carestie) e presentati a Venezia nel ’73: la versione “africana” dell’Orestea, la trilogia tragica di Eschilo (una cui traduzione per le scene aveva preparato nel ’60 per Vittorio Gassman9), nei sogni di Pasolini avrebbe dovuto avere come protagonista il grande pugile americano Mohammed Alì.
Il primo film «da farsi» di Pasolini però segue, anziché precedere, l’opera cinematografica “vera e propria” alla quale si riferisce. È il mediometraggio intitolato Sopralluoghi in Palestina, che nel ’65 presenta al pubblico le riprese preparatorie per il Vangelo secondo Matteo (che poi come detto era stato girato, invece, nei Sassi di Matera), fatte due anni prima nei luoghi del racconto dei Vangeli. Stando a quanto Pasolini racconta a Jon Halliday, l’idea di montare quelle riprese e accompagnarle con un suo commento ad hoc non fu sua in effetti, bensì del produttore Andrea Carraro che lo aveva accompagnato in quel viaggio10. Seguendolo in questi suoi frenetici vagabondaggi, si pensa davvero – come ha scritto Walter Siti – che anziché usare il viaggio «per accumulare esperienza, e quindi produrre poesia», per Pasolini «viceversa la poesia fosse una scusa, o un pretesto, per viaggiare»11. Ricorda anche, Siti, un «poema sperimentale intitolato F., risalente al 1965», nel quale si legge (Poesie 2003, II, 907):
Niente insomma è più poetico
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della vita di un poeta
e l’oggetto più poetico della poesia
è dunque in conclusione la poesia.
Soprattutto se il poeta se ne infischia di tutto
ed è il vecchio re che fa i sopralluoghi.
Uno dei film in assoluto più “sperimentali” che abbia mai realizzato Pasolini è il cortometraggio Le mura di Sana’a, girato nel ’70 nello Yemen durante le riprese di un episodio del Decameron poi non incluso nella sua versione definitiva (che invece, com’è noto, si ambienta tutta a Napoli), e uscito nel ’74. In questo caso non si tratta neppure di materiali preparatori girati in vista del film “maggiore”, bensì di un’iniziativa estemporanea realizzata (racconterà Pasolini, all’uscita del “corto”, sul «Corriere della Sera»)12 con delle bobine di pellicola avanzate dalla produzione. Il suo è un appello all’UNESCO perché salvaguardi l’impianto medievale della città, «bella come Venezia o Urbino o Praga o Amsterdam» e «rimasta tutta intera esattamente com’era molti secoli fa», ma ora messa a rischio da «un indiscriminato desiderio di modernità e di progresso» (Per il cinema, II, 2108) che nel paese arabo è stato portato, fra l’altro, non dal capitalismo occidentale bensì da quello che si rivelerà molto più avanti come “capitalismo di stato” cinese. Nell’84 l’UNESCO in effetti accoglierà l’appello di Pasolini, proclamando Sana’a «patrimonio dell’umanità». Ma qui ci interessa soprattutto il parallelo che nelle Mura di Sana’a fa Pasolini con un “caso” geograficamente molto più prossimo, quello di Orte (borgo medievale nel viterbese non distante dal suo studio, la “Torre di Chia”) al quale dedica un altro breve documentario nel ’74, La forma della città. Sebbene a Sana’a dica che «per l’Italia è finita» (ivi, 2110), mostrando in quel montaggio delle riprese fatte appunto a Orte, Pasolini continua a battersi in difesa non di un monumento illustre o di un’opera d’arte sublime, bensì del prodotto spontaneo e millenario «del popolo, dell’intera storia del popolo di una città»: per lui tanto più prezioso proprio in quanto «anonimo» e «popolare» (ivi, 2127).
E infatti il nucleo più originale del terzomondismo pasoliniano è la sua attenzione quasi “tecnica” alla forma “urbanistica” di luoghi che – come del resto sostiene anche lui, lo abbiamo visto – non conta poi granché, in effetti, si trovino in Africa o nell’alto Lazio. La sua straordinaria competenza storico-artistica fa in questi casi tutt’uno – al di là delle romantiche e corrusche fantasie di palingenesi politica – con una prensile attenzione sociologica; l’occhio di Pasolini diventa davvero simile, allora, a quello di un antropologo (come, abbiamo visto all’inizio, da lui viene concepito parlando di Salvatore Di Giacomo), e il suo oggetto d’analisi più congeniale si rivela appunto la città.
«Più veloce d’un cuore / ahimè, cambia la forma d’una città», aveva scritto già Baudelaire. Ma non aveva ancora visto niente. Le grandi città moderne bruciano di continuo, per ogni volta rinascere dalle proprie ceneri. Ma se questo bastava a dannare la memoria di quell’Imperatore romano che, secondo la leggenda, aveva preteso di trovare ispirazione poetica alla vista delle fiamme, oggi i fuochi delle ristrutturazioni sono all’ordine del giorno. Magari non alla lettera, com’è invece avvenuto nel quartiere romano del Pigneto al Bar Necci, per ben due volte dato alle fiamme da ignoti, nel 2009 e nel 2013. Luogo storico soprattutto per essere stato il quartier generale dei sopralluoghi di Pasolini in vista del suo primo film come regista, Accattone.
La parola «sopralluoghi», come abbiamo visto, piaceva molto a Pasolini (il quale peraltro si compiaceva di scriverla con la «l» scempia). E credo si dovesse al fatto che in qualche modo il termine allude a una natura doppia dei luoghi: un loro spessore nel tempo che si accompagna a quello – ovvio per chi, come lui, ben conosceva la loro storia artistica e architettonica – verticale nello spazio: come emblematicamente a Roma, la città dove Pasolini visse dal ’50 al ’75. I luoghi come li vediamo ora si sono depositati, cioè, sopra altri luoghi, costruiti e vissuti decenni o secoli fa, che con quelli più recenti coesistono in uno strato più basso. Sigmund Freud, che da Roma era attratto e insieme spaventato, paragonava non a caso la psiche umana a una città «in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti»13.
Ma questa è pure la natura “processuale” dell’idea di testo «da farsi» che, lo abbiamo visto, Pasolini concepisce verso la metà degli anni Sessanta. E non è neppure un caso, si direbbe, che questa sua idea si faccia particolarmente evidente nel suo cinema, e soprattutto nella sua riflessione al riguardo. Del resto se quella della poesia è sempre stata per lui piuttosto una teoria, un progetto, un desiderio che non una pratica concreta – una «patria» ideale (ha scritto Siti in Poesie 2003, II, 1922), piuttosto che un’opera effettivamente individuata – il cinema era stato da lui abbracciato, come dichiara in diverse interviste, proprio per allontanarsi dai confini sin troppo frequentati della letteratura. «In un certo senso», dichiara, «facendo il cinema, ho voluto cambiare nazionalità», in una specie di «rinuncia alla nazionalità italiana»14: dove per Pasolini, come si vede, coincidono l’altrove linguistico, quello dell’identità nazionale e quello delle diverse tecniche artistiche di volta in volta impiegate.
In Empirismo eretico, raccolta di saggi pubblicata nel ’72 con pagine del decennio precedente, spiega Pasolini come appunto il cinema sia strutturalmente governato da una legge che lo rende unico fra tutte le arti. Le immagini che vediamo scorrere sullo schermo sono state infatti “prefigurate” da chi il film a suo tempo aveva ideato, sognato, “scritto”; la sceneggiatura è una scrittura-figura (nel senso medievale messo a fuoco da Erich Auerbach), una «struttura» che, dice Pasolini, «vuol essere altra struttura» e che, non sempre ma il più delle volte, finisce per diventarla davvero: quando appunto vengono realizzate le immagini del film. Ma è vera altresì la reciproca: se il cinema è unico, lo è in quanto doppio: una visione sempre seconda in quanto serba, più o meno profonda, l’impronta di quella passata prefigurazione.
Sempre in Empirismo eretico dice Pasolini che «fare del cinema è scrivere su della carta che brucia»15: il film di carta, la sceneggiatura, versa le proprie ceneri nel film di pellicola, ma quell’incendio sterminatore è anche roveto ardente, crogiuolo demiurgico («il cinema brucia e illumina», dirà qualche tempo dopo il suo amico Andrea Zanzotto)16. Non è un caso che la sceneggiatura del primo film diretto da Pasolini, Accattone, cominci con le parole «Tutto brucia», e nel seguito la «vampa atroce» del sole sferzi i dannati delle borgate che mai trovano requie su un sabbione da oltretomba (il film è introdotto da un esergo dantesco). È una stagione all’Inferno – come quella del suo nume tutelare, Rimbaud – quella che racconta Pasolini: non è un caso se uno dei compagni di Accattone si chiama Cartagine, come la città incendiata dai romani («Che tu potesse fa’ la fine di Nerone», gli gridano).
Prima di questo esordio bruciante dietro la macchina da presa, sin dai primi anni Cinquanta Pasolini aveva prestato la sua opera, al cinema, appunto come sceneggiatore (per autori come Mario Soldati, Mauro Bolognini e Florestano Vancini, ma anche Federico Fellini: col quale collaborò nelle Notti di Cabiria e nella Dolce vita); peraltro una sua sceneggiatura per una volta ambientata a Milano, La Nebbiosa, non diverrà mai un film (scritta nel ’59, l’ha pubblicata il Saggiatore a cura di Graziella Chiarcossi nel 2013; molto diversa, nel ’63, la pellicola Milano nera che ne derivò). Sono gli stessi anni dei “sopralluoghi”, che – sulla base della competenza sui luoghi meno canonici della città, sciorinata nei romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta lì ambientati – Pasolini viene chiamato a svolgere, e non solo dall’industria del cinema. Come ha mostrato di recente Silvia De Laude, infatti, nel ’59 collabora attivamente col giovane fotografo americano William Klein, che ha conosciuto in qualità di assistente di Fellini nelle Notti di Cabiria alla cui sceneggiatura Pasolini aveva pure collaborato, che già aveva pubblicato un bellissimo fotolibro su New York. Nel nuovo libro di Klein, Roma (uscito in edizione bilingue, italiana e francese, alla fine di quell’anno da Feltrinelli), Pasolini scrive didascalie di suo pugno e sceglie citazioni da autori come Belli, Leopardi, Stendhal e Dickens. L’anno seguente Pasolini realizza anche, per il Saggiatore, un fotolibro a sua firma, Le donne di Roma, con immagini dell’olandese Sam Waagenaar; ma è già in forma di «fototesto» (come lo chiama la rivista) una sua inchiesta in tre puntate sulle borgate che esce nel ’58 sul settimanale illustrato «Vie nuove» e s’intitola Il fronte della città, dove non solo retoricamente si comincia col chiedere: «Cos’è Roma? Qual è Roma? Dove finisce e dove comincia Roma?»17. Sono domande alle quali Pasolini non cesserà di rispondere, in modo sempre diverso, negli anni e decenni a venire. Le baracche delle borgate, da lui più o meno liricamente cantate negli stessi anni, sono in questo caso viste per quello che sono: luoghi infami nei quali a suo tempo il regime fascista ha «deportato» i «contingenti di sottoproletariato romano» che prima formicolava al centro. Ora però quei «tuguri» stanno lasciando il posto a costruzioni più moderne e imponenti, «palazzoni nuovi di zecca, appena costruiti tra distese di sterri, prati abbandonati e immondezzai». Secondo Pasolini, però, nulla è davvero cambiato nel passaggio dal regime fascista al governo democristiano: identico il «rapporto autoritario e paternalistico» tra «Stato e “poveri”», identica la disperazione che si continuerà a respirare tra quei «palazzoni, in file identiche, identici tra loro». E usa un’immagine forte – discutibile forse, memorabile senz’altro – per alludere a tale continuità. Li chiama «campi di concentramento».
Proprio come la città di Roma, in fondo, anche quelli del «cinema di poesia» di Pasolini – lo ha sottolineato Georges Didi-Huberman – sono «film dalla doppia natura» che compongono dunque un’«immagine dialettica», nel senso che a questa espressione aveva dato Walter Benjamin: «sotto» il film “manifesto” che davanti ai nostri occhi svolge la sua «storia», dice Pasolini in Empirismo eretico, «scivola l’altro film», un film “latente” e «poetico», «totalmente e liberamente di carattere espressivo-espressionistico» (Saggi, I, 1482)18, che ci appare per squarci e barlumi, improvvise folgorazioni. Ma proprio questa, a ben vedere, è la sintassi narrativa che Pasolini adotterà nel suo estremo e incompiuto capolavoro romanzesco (o anti-romanzesco), Petrolio.
Questo testo, accompagnato da un “doppio” di appunti metanarrativi che lo divora dall’interno – come in diversi testi di un altro maestro-chiave di Pasolini, Carlo Emilio Gadda –, è in tutti i sensi “doppio”: suo protagonista è l’ingegner Carlo Valletti che si scinde in Carlo di Polis e Carlo di Tetis, e suo episodio-chiave è la «Visione» che si snoda lungo ventotto paragrafi e tre finali diversi. Qui, sul medesimo paesaggio suburbano di Torpignattara, s’incontrano due piani temporali sfalsati fra loro: da una parte quello delle borgate romane “di una volta” – dei tempi di Una vita violenta, Accattone e Mamma Roma cioè – dove Pasolini aveva sognato di incontrare una natura popolare edenica e inconcussa, quella che chiama ora «Realtà»; e dall’altra il panorama sconsacrato e infernale degli anni Settanta, il «museo degli orrori» che definisce appunto «Visione». Sotto l’immagine più recente «balugina» quella primitiva, ma la seconda la esautora e smentisce, facendo apparire la «Realtà […] ingiallita come una vecchia fotografia»: mentre la «Visione» si mostra vivida e squillante, artificialmente sovrailluminata come se fosse investita dal riflettore di un set cinematografico; e in effetti è contemplata dalla posizione di «un regista sopra un carrello»19.
Sopralluoghi non sono insomma solo quelli “tecnici”, nei quali il giovane scrittore di recente inurbato s’era mostrato tanto esperto da poter guidare fotografi e cineasti, allora, ben più illustri di lui. Sono invece l’anima stessa della sua visione della «città di Dio», come la chiama. Roma è uno di quei luoghi «in certo modo doppi» di cui parla Leopardi nello Zibaldone: l’«uomo sensibile e immaginoso vedrà cogli occhi una torre, una campagna […]; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna»20. La città in cui Pasolini sbarca quasi fuggiasco al mezzo del cammin di sua vita (nell’Anno Santo del 1950, come la visione di Dante era ambientata in quello del 1300), era destinata davvero a dividerlo in due: un quarto di secolo dopo, finirà per restarvi incenerito. Ma, come quello di un nuovo Giordano Bruno, il suo fuoco continua a bruciarci – e illuminarci.
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1 Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., vol. I, Mondadori, Milano 1999, p. 469. D’ora in poi il riferimento a questa edizione verrà dato nel testo con l’indicazione Saggi sulla politica.
2 Pier Paolo Pasolini, “Progetto di opere future”, in Poesia in forma di rosa, ora in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll., vol. I, Mondadori, Milano 2003, p. 1251. D’ora in poi il riferimento a questa edizione verrà dato nel testo con l’indicazione Poesie 2003.
3 Cfr. Gianna D’Agostino, Pensiero corsaro, Effigie, Pavia 2016, p. 140.
4 Cfr. Alberto Arbasino, Sessanta posizioni, Feltrinelli, Milano 1971, p. 355.
5 Si veda la ricostruzione di Enrico Menduni, Sartre e Pasolini, un incontro, in «Studi sartriani», XII, 2018, pp. 181-92. A Menduni si deve anche la cura del documentario di Gianni Borgna, Profezia. L’Africa di Pasolini, Cinecittà-Luce 2013.
6 Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti, F. Zabagli, 2 voll, vol.1, Mondadori, Milano 2001, p. 395. D’ora in poi il riferimento a questa edizione verrà dato nel testo con l’indicazione Per il cinema.
7 Cfr. Maria Antonietta Macciocchi, Cristo e il marxismo. Ho assistito al dialogo tra Pasolini e Sartre sul Vangelo, in «L’Unità», 23 dicembre 1964; poi in Ead., Duemila anni di felicità. Diario di un’eretica [1983], il Saggiatore, Milano 2000; si veda pure, a sua cura, Pasolini: Séminaire (Paris, Institut Culturel italien, 10-12 mai 1979), Grasset, Paris 1980.
8 Pier Paolo Pasolini, Il padre selvaggio, Einaudi, Torino 1975.
9 Pier Paolo Pasolini, Eschilo, Orestiade, in “Quaderni del Teatro Popolare Italiano”, Einaudi, Torino 1960.
10 Pasolini su Pasolini: conversazioni con Jon Halliday, introduzione di Nico Naldini, Guanda, Milano 1992, p. 73.
11 Walter Siti, L’opera rimasta sola [2003], in Id., Quindici riprese. Cinquant'anni di studi su Pasolini, Rizzoli, Milano 2022, p. 101.
12 Pasolini racconta con rabbia l’assurda rovina di una città, in «Corriere della Sera», 29 giugno 1974; ora cit. in Per il cinema, II, 3171-2.
13 Sigmund Freud, Il disagio della civiltà [1930], in Id., Opere, vol. 10, Bollati Boringhieri, Milano 1978, p. 563.
14 Intervista televisiva anni Sessanta montata da Andrea Salerno nel suo Via Pasolini (2005): https://www.youtube.com/watch?v=vST4cNhvX9Y, 13’58”
15 Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., vol. I, Mondadori, Milano 1999, p. 1566. D’ora in poi il riferimento a questa edizione verrà dato nel testo con l’indicazione Saggi.
16 Nel poemetto del 1976, Filò. L’espressione è poi passata a intitolare la raccolta degli scritti sul cinema di Zanzotto (fra i quali due dedicati proprio a Pasolini): Andrea Zanzotto, Il cinema brucia e illumina. Intorno a Fellini e altri rari, a cura di L. De Giusti, Marsilio, Venezia 2011.
17 Pier Paolo Pasolini, Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, con due saggi di W. Siti, 2 voll., vol. I, Mondadori, Milano 1998, pp. 1454-66: 1454.
18 Cit. in Georges Didi-Huberman, Sentire il grisou [2014], a cura di Francesco Fogliotti, Orthotes, Napoli-Salerno 2021, p. 133.
19 Pier Paolo Pasolini, Petrolio [testo edito postumo nel 1992], a cura di Maria Careri e Walter Siti, Garzanti, Milano 2022, p. 388 (appunto «71a»).
20 Zib. 1118 (30 novembre 1828).