Se c’è una caratteristica della produzione e delle opinioni di Pasolini che salta agli occhi a chi ripercorre la sua opera nel suo sviluppo temporale, è la contraddittorietà. La sua è un’evoluzione che procede per abiure delle fasi precedenti, per nuove passioni e interessi, per scoperte di sempre nuovi orizzonti che negano i precedenti. Poeta lirico ma anche civico, comunista ma non progressista, difensore della cultura popolare ma regista “per pochi”, scandaloso e moralista al tempo stesso, animato da un forte amore per la vita ma profondamente pessimista sulle sorti della società moderna: come convivono nella sua opera contraddizioni tanto forti? Cerchiamo una risposta a questa domanda insieme ad Andrea Cortellessa, critico letterario, professore di letteratura italiana contemporanea all'Università Roma Tre.
Andrea Cortellessa
L’instancabile sperimentatore che si volle e fu Pasolini non s’è mai accontentato dei linguaggi che di volta in volta ha adoperato, né delle forme ereditate dalla tradizione nella quale pure, lo sappiamo, solo era il suo amore. Questa è stata la sua grandezza: la sua capacità di spingersi – e così spingerci – fuori dai circuiti collaudati e dalle sue, e nostre, comfort zones. Ma questa è stata anche la sua maledizione: che spesso gli ha impedito di compiere le opere alle quali più teneva. Il paragone col di lui tanto più cauto, e tanto più risolto, Montale – che ho già avuto modo di accennare – è stato svolto anche, di recente, da Roberto Galaverni: il quale ha curato un libro abbastanza impressionante che raccoglie solo una parte delle tantissime poesie indirizzate a Pasolini dai suoi colleghi1. Se «il mito Pasolini nasce dapprima come mito della poesia», a consuntivo andrà concluso che, se non fu certamente lui il maggior poeta del suo tempo, egli fu «il più grande saggiatore (nel senso di colui che saggia, che mette alla prova) ed eversore del sistema-poesia […], quello che più di ogni altro ha cercato la prosecuzione della poesia con altri mezzi e al di fuori dei suoi territori convenzionali»2.
“Poeta” dappertutto, insomma – soprattutto nella saggistica, nel cinema e nelle “azioni complesse” dell’ultimissimo periodo –, più che nella poesia tradizionalmente intesa come scrittura in versi. Eppure ha ragione anche Andrea Zanzotto quando, commentando Teorema, il film e romanzo del ’68, dice che in questo compimento della «poesia totale» che è il cinema per Pasolini, resiste irriducibile il nucleo simbolico rappresentato dalla poesia in senso stretto: materializzata dal libro di Rimbaud stretto nelle mani dell’Ospite venuto a sconvolgere l’ordine borghese, e che si presenta dunque come «angelo simbolico della poesia stessa»3.
In effetti Pasolini ha ricordato a posteriori come l’ingresso nella sua vita proprio di Rimbaud fosse stato provvidenziale anche per allontanare da sé il fascismo paterno: grazie al supplente Antonio Rinaldi che al liceo Galvani di Bologna, nel ’37, in classe lesse appunto una sua poesia. E ancora una volta è questo il nume tutelare in una singolare autobiografia in versi intitolata Poeta delle ceneri, scritta da Pasolini intorno al ’66-67 ma pubblicata solo postuma nel 1980.
Il suo vero manifesto poetico, però, Pasolini lo aveva scritto qualche anno prima. Sono, quelli poi raccolti nel ’64 nella sezione Poesie mondane di Poesia in forma di rosa, i suoi versi forse in assoluto più citati. Li “cita” lui stesso in effetti, prima ancora che esca il libro che li contiene in forma definitiva, mettendoli in bocca all’avatar interpretato da Orson Welles, un tronfio regista hollywoodiano che sta mettendo in scena la crocifissione di Cristo nel mediometraggio La ricotta4:
lo sono una forza del Passato.
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Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
È questa la condizione paradossale che Pasolini ha incarnato nel Novecento: una forza del Passato che però, al contempo, si proclama più moderno di ogni moderno. «Poeta della sineciosi», si definirà, facendo suo un termine usato contro di lui dall’amico-nemico Franco Fortini. Volendo così indicare «quella sottospecie dell'oxymoron, che l'antica retorica» usava per «affermare, d'uno stesso soggetto, due contrari»5.
Da un lato dunque la spinta alla regressione, nella dimensione prenatale delle viscere e del feto; dall’altra la prefigurazione di una dimensione apocalittica e postuma come il Dopostoria. Ce n’è abbastanza perché a posteriori la lotta senza quartiere di Pasolini contro la modernità venga considerata un esempio precoce di postmodernità. La parola postmoderno comincia a circolare, in Italia, proprio in quei primi anni Sessanta, ma Pasolini non la usa mai. E forse in effetti basta nel suo caso una categoria culturale, storica e meta-storica, che gli era invece ben nota: quella di manierismo. Un poemetto intitolato La Guinea, a sua volta raccolto in Poesia in forma di rosa (Poesie 2003, II, 1085-6), comincia così:
Alle volte è dentro di noi qualcosa
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(che tu sai bene, perché è la poesia)
qualcosa di buio in cui si fa luminosa
la vita […]
Di questo cortocircuito fra buio e luminosità Pasolini offre un esempio, nei versi seguenti, paragonando un paesaggio visto dal vero – la terra dell’amico Attilio Bertolucci, Casarola nel parmigiano – a uno dei tanti repertori artistici a lui cari: «i corpi / sublimi dei castagni» al «motivo d’una pittura rustica / ma raffinata». E commenta:
Non Correggio, forse: ma di certo il gusto
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del dolce e grande manierismo
che tocca col suo capriccio dolcemente robusto
le radici della vita vivente: ed è realismo...
Il titolo stesso dell’highlight della raccolta del ’64, il magnifico poemetto Una disperata vitalità, viene da una definizione data da Roberto Longhi del manierismo in un suo saggio del ’53, Ricordo dei manieristi. Una volontà pervicace e concettosa di tenere insieme i contrari, come a Pasolini era stato diagnosticato da Fortini, è tratto tipico dei manieristi di tutte le epoche. È il caso per esempio, nella Guinea, di due tensioni di norma considerate contrapposte come il realismo e appunto il manierismo: la torturante consapevolezza, cioè, che «solo attraverso la letteratura ha potuto essere poeta», come confessa nel Poeta delle ceneri (Poesie 2003, II, 1278).
Qui (Poesie 2003, II, 1252) Pasolini racconta di aver scritto il suo primo libro, Poesie a Casarsa, uscito a spese di suo padre nel 1942 presso la Libreria Antiquaria Landi, non nel paese friulano di sua madre, cui quelle poesie s’intitolano e dove sono ambientate, bensì nella città dove Pasolini è nato e si è formato, l’«impoetica» Bologna: la città di suo padre, il militare di carriera fascista Carlo Alberto Pasolini (al quale Poesie a Casarsa è dedicato). Dice Pasolini: «quei miei versi friulani sono i miei più belli», e si può concordare con lui. Versi contrassegnati da questa doppia matrice di luogo – l’impoetica Bologna e l’iperpoetico «paese di temporali e primule», come definisce il “suo” Friuli – e di archetipi genitoriali, paterno da un lato ed edipico dall’altro («il suo utero linguistico», definisce Casarsa una volta Pasolini)6.
Quel libro autoprodotto viene notato da pochi lettori, ma uno di questi è il maggior critico italiano del Novecento. La recensione che di Poesie a Casarsa fa l’anno seguente Gianfranco Contini riconosceva l’ispirazione del Pasolini ventenne nella sindrome psichica del «narcissismo», e vi riconduceva l’uso del dialetto in funzione non naturalistica, bensì al contrario alessandrina e simbolista7.
Antologizzando sé stesso nel ’70, Pasolini ci offre una ulteriore autobiografia della sua opera poetica nell’introduzione indirizzata Al lettore nuovo (Saggi, II, 2514). Dando in sostanza ragione a Contini: nessuna intenzione “realistica”, a quel tempo, e tantomeno “civile”, in una poesia che si appellava viceversa al principio simbolista della poesia pura, in «un’apparente definitiva opzione per il suono». Ma è vero che il fascismo, che malsopportava il polimorfismo dialettale, rifiutava quell’opzione, e dunque – scrive Pasolini a posteriori – «la sua “lingua pura per poesia” era stata scambiata per un documento realistico provante l'esistenza obiettiva di poveri contadini eccentrici».
Accanto alla figura di Narciso, nel primo Pasolini coesistono i ben distanti archetipi di Cristo e di Edipo. Anche la venerata icona materna assume infatti, nel suo immaginario, due volti antitetici. C’è l’infinita dolcezza, palpabile nei servizi fotografici realizzati nelle abitazioni con lei condivise a Roma; ma c’è pure la terribilità mortifera della sua icona nel Vangelo secondo Matteo (ricalcata sulle Furie cristiane dello scultore quattrocentesco Niccolò dell’Arca) e soprattutto in Teorema (ripresa stavolta dalla Morte effigiata dal Settimo sigillo di Ingmar Bergman). Un’ambivalenza cui fanno cenno alcuni dei suoi testi per il teatro, più da vicino intrisi di materia psichica, ma a ben vedere espressa anche in un’altra delle sue poesie più conosciute, la Supplica a mia madre di Poesia in forma di rosa (Poesie 2003, I, 1102):
[…] è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
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Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senza anima.
Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: […]
Dopo i controversi «fatti di Ramuscello» dell’estate del ’49 (cioè lo scandalo per atti osceni in luogo pubblico a seguito del quale Pasolini perde il posto a scuola e il ruolo che rapidamente aveva assunto all’interno del Partito Comunista locale), nelle poesie scritte a cavallo della cacciata dall’Eden friuliano (ma pubblicate solo diversi anni dopo), quelle raccolte nell’Usignolo della chiesa cattolica e nei Diari, prevale il «falsetto» (come lo chiamerà Fortini) di un preziosismo metrico che tiene il luogo in precedenza tenuto dal preziosismo linguistico. «Poesia con letteratura», s’intitola non a caso una sezione dei Diari, ma quegli stessi Diari si concludono col poemetto La scoperta di Marx, dove Pasolini inneggia a «La nostra storia! morsa / di puro amore, forza / razionale e divina» (Poesie 2003, I, 503). Siamo infatti negli anni in cui matura la sua adesione al comunismo.
Nella penultima stazione del poemetto Una disperata vitalità il poeta redige una «conclusione funerea» che è anche una «tavola sinottica […] della sua carriera poetica», un’ennesima e lampeggiante autobiografia in versi (Poesie 2003, I, 1200):
«Venni al mondo al tempo
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dell'Analogica.
Operai
in quel campo, da apprendista.
Poi ci fu la Resistenza
e io
lottai con le armi della poesia.
Restaurai la Logica, e fui
un poeta civile.
Ora è il tempo
della Psicagogica.
Posso scrivere solo profetando
nel rapimento della Musica
per eccesso di seme o di pietà».
Dopo il periodo manierista degli esordi, cioè quella qui definita l’Analogica, negli anni Cinquanta viene dunque il tempo del poeta civile. Nella Divina Mimesis, testo cominciato all’inizio degli anni Sessanta ma licenziato solo alla vigilia della morte (dove non manca d’ironizzare sulle ambizioni del «piccolo poeta civile degli anni Cinquanta»), al suo primo nume tutelare Contini Pasolini cercherà di sposare – in un binomio “scandaloso”, ed effettivamente arduo da sostenere – il nuovo faro intellettuale subentrato nella maturità. Il libro-simbolo del suo engagement esce nel 1957, infatti, col titolo Le ceneri di Gramsci. Ed è questo il libro che impone una volta per tutte Pasolini al pubblico della poesia. S’è visto infatti come la citata autobiografia in versi di dieci anni dopo si riferirà al suo autore, per antonomasia, come al Poeta delle ceneri. Il che non toglie che, come ha scritto Fernando Bandini, in queste pagine suoni a volte retorico un «discorso che sembra rivolto a un vasto ascolto collettivo» ma nel quale non si può non notare «la persistenza, talvolta ipertrofica, dell’io»8. Da ora in poi Pasolini tenterà in tutti i modi di conciliare il narcisismo diagnosticatogli da Contini, e da lui mai rinnegato, con l’adesione a orientamenti politici che con quella pulsione fanno sprizzare scintille: non meno di quanto facessero il suo realismo e il suo manierismo.
Nel poemetto che dà il titolo al libro del ’57 confessa clamorosamente la propria ambivalenza (Poesie 2003, I, 820-1):
Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere
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con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere; […]
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza […]
come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:
ma a che serve la luce?
Come verrà detto anche nella Guinea, il buio delle viscere e la luce della storia (nella sua interpretazione in chiave marxista, s’intende), cioè la passione e l’ideologia, si confrontano e si rispecchiano l’una nell’altra. A chiare lettere viene così enunciata un’adesione al popolo, alla vita proletaria, prima estetica e passionale che ideologica: in un appello alla sua vitalità e sensualità, insomma alla sua natura e non certo alla sua coscienza, quella che in termini marxiani si dice appunto coscienza di classe. Il titolo della raccolta di saggi uscita tre anni dopo, nel ’60, Passione e ideologia appunto, in questo senso è tutto un programma. Diviso fra queste due appartenenze, Pasolini sa bene che per lui c’è prima la passione e solo in un secondo momento, a darle forma e a giustificarla razionalmente diciamo, arriva l’ideologia.
Dieci anni prima, nel ’47, gli aveva scritto Contini: «sono millenni che la letteratura va sopra la linea. A me piace che scenda sotto la linea e per così dire sotto l’umano, senza per questo calare negli inferi». È quello che nell’80 – stendendo l’epicedio per il poeta assassinato – lo stesso Contini chiamerà, in termini flaubertiani, il suo sublime d’en bas, che sostiene Pasolini avesse trovato in Pascoli (il poeta al quale nel ’45 aveva dedicato la sua tesi di laurea)9. Nel ’55 Contini tiene una fondamentale conferenza proprio su Pascoli, in cui descrive la sua poesia come divisa fra l’immediatezza fonosimbolica dell’onomatopea animale e il preziosismo in lingua morta della poesia in latino, cioè quelli che chiama livello «pregrammaticale» e «postgrammaticale» del linguaggio10 o, possiamo aggiungere, il suo piano pre-storico e quello post-storico. Ed ecco come Pasolini imposta il poemetto forse più programmatico delle Ceneri, quello dal titolo dantesco e virgiliano L’umile Italia (Poesie 2003, I, 804):
Più è sacro dov'è più animale
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il mondo: ma […]
a noi tocca esaurire
il suo mistero in bene e in male
umano. Questa è l'Italia, e
non è questa l'Italia: insieme
la preistoria e la storia che
in essa sono convivano, se
la luce è frutto di un buio seme.
Così Pasolini si contrappone al preziosismo di quello che in Passione e ideologia chiama «Novecento», cioè la dominante letteraria di matrice simbolista dalla quale aveva preso le mosse. Ideologicamente, e gramscianamente appunto, un’opzione «nazional-popolare». Ma s’è visto come in termini tecnici fosse stato sempre Contini, invece, a indicare a Pasolini questa strada: quella di un linguaggio abbassato e “inclusivo” contro la selezione lessicale dell’eterno petrarchismo italiano. L’adozione della pseudo-terzina in pseudo-endecasillabi, di matrice appunto pascoliana, rimarca questo indirizzo viceversa “dantesco” che – tanto gramscianamente che continianamente, dunque – il poeta intende far suo.
Ma una simile scelta di campo, con nuova e stridente contraddizione, coesiste con un ispessirsi feticistico della “ricchezza” culturale così spesso evocata da questi stessi testi. Il paesaggio virgilianamente humilis, nell’Umile Italia appunto delle Ceneri, coesiste col paesaggio iper-culturalizzato di poemetti come, appunto e sin dal titolo, La ricchezza o Riapparizione poetica di Roma, entrambi inclusi nella raccolta successiva La religione del mio tempo, che esce nel ’61. Ma ha già questo significato, nelle Ceneri di Gramsci, l’apparizione di uno squisito capo d’opera quattrocentesco, il monumento funebre a Ilaria del Carretto scolpito a Lucca da Jacopo della Quercia, nel poemetto intitolato L’Appennino.
Il legame con le immagini dell’arte è stato sempre privilegiato, nella scrittura di chi all’Università di Bologna era stato allievo di Roberto Longhi, le cui lezioni su Masolino e Masaccio Pasolini ricorderà come una «Rivelazione». Ma all’inizio degli anni Sessanta – dopo aver intensamente collaborato all’industria cinematografica come sceneggiatore – Pasolini passa dietro la macchina da presa; e cambia tutto. Nel ’61 esce Accattone, nel ’62 Mamma Roma (dedicato proprio a Longhi e a quella che Pasolini chiama la sua «fulgurazione figurativa»). La raccolta poetica di svolta, Poesia in forma di rosa, porta l’immagine già nel titolo: diversi suoi componimenti sono impaginati infatti come poesie visive, nella tradizionale forma alessandrina del calligramma.
Il suo vertice, il già più volte citato poemetto Una disperata vitalità, modella il proprio ritmo, invece, sulla nuova lingua adottata da Pasolini: il montaggio del cinema. Il testo si snoda in nove sezioni, o meglio nove sequenze, introdotte da didascalie che mimano appunto quelle delle sceneggiature cinematografiche; e comincia con un’“inquadratura” memorabile: un travelling, come si dice nel cinema, dal punto di vista di un’automobile lanciata a tutta velocità «per le autostrade / del Neo-capitalismo latino»: alla maniera, precisa Pasolini, di «un film di Godard» (Poesie 2003, I, 1182). Non si può non pensare ad À bout de souffle, capolavoro della “Nouvelle vague” uscito nel ’60 che restituisce davvero la disperata vitalità di un criminale che corre a perdifiato, appunto, verso la fine violenta che sin dall’inizio è iscritta nel suo destino. Ma al di là dei temi c’è, di Godard e in generale della sintassi cinematografica di quegli anni, l’alternarsi di indugianti piani-sequenza e di una convulsa frammentazione di punti di vista che isolano dettagli in apparenza irrilevanti “saltando” invece i tradizionali raccordi narrativi. Nulla di più distante, insomma, dalle panoramiche sontuose e dalle lunghe concioni delle Ceneri di Gramsci.
Il vero tema di Una disperata vitalità è l’acuta consapevolezza che quell’affannarsi di vita altro non è che l’appunto disperata consapevolezza di una fine imminente. Come nel mediometraggio dell’anno precedente, La ricotta, il protagonista-regista si confronta con una giornalista persecutoria, un «cobra col golfino di lana» la definisce sprezzante Pasolini, alla quale il personaggio-autore confessa i suoi disinganni e le sue incertezze (Poesie 2003, I, 1185-6):
«Mi dice che cosa sta scrivendo?»
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«Versi, versi, scrivo! versi!
(maledetta cretina,
versi che lei non capisce priva com'è
di cognizioni metriche! Versi!)
versi NON PIÙ IN TERZINE! […]
Sono tornato tout court al magma!
Il Neo-capitalismo ha vinto […]
Nella penultima sequenza del poemetto, come aveva anticipato, il personaggio-autore mostra che ormai può scrivere solo profetando: non solo prefigura il momento della sua morte (con una precisione perturbante ambientandola a «Ostia», «sulle rive del mare») ma quello che ritiene sarà il senso, o il non senso piuttosto, di quella morte – cioè l’eredità simbolica del suo passaggio sulla terra (Poesie 2003, I, 1201):
«Quanto al futuro, ascolti:
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i suoi figli fascisti
veleggeranno
verso i mondi della Nuova Preistoria.
Io me ne starò là,
qual è colui che suo dannaggio sogna
sulle rive del mare
in cui ricomincia la vita. […]
Come un partigiano
morto prima del maggio del '45,
comincerò piano piano a decompormi,
nella luce straziante di quel mare,
poeta e cittadino dimenticato».
Questa profezia di decomposizione non riguarda solo il corpo fisico del poeta – equiparato in questi ultimi versi a quello del fratello partigiano, Guido, morto a Porzûs nell’episodio più controverso della guerra civile – ma anche il corpus della sua opera in versi. L’equilibrio miracoloso di Poesia in forma di rosa, negli anni successivi, irrimediabilmente si sfalda. La tendenza all’informale e al «magma» si accentua sempre più, e Pasolini non teme di avventurarsi in «una poesia» che, ha scritto Siti, «desidera essere brutta» (RR, I, Xl). Con la solita fretta spasmodica, fra un sopralluogo per un film e un’intervista televisiva, Pasolini butta giù componimenti in forma stenografica: reportage, editoriali e «comunicati all’ansa», tutti appunti per un’opera «da farsi» – così teorizza nei saggi di Empirismo eretico – che in sostanza, però, non si compie mai davvero.
E nel ’71 quei non-versi o quasi-versi li raccoglie in un libro dal titolo in parte dantesco, Trasumanar e organizzar. Due anni prima aveva spiegato a Jean Duflot d’essere tutto preso dal progetto di un film sulla figura di San Paolo (che, come tanti altri, non riuscirà mai a realizzare). Ma è appunto la figura doppia del convertito suo omonimo a polarizzare i due fuochi del titolo poetico del ’71. Da un lato il rapimento mistico, che nel primo canto del Paradiso dantesco viene appunto definito «trasumanar», cioè andare oltre i limiti dell’umano sino all’identificazione col principio divino, e dall’altro la concreta attività organizzativa del padre della chiesa.
L’ultimo atto del Pasolini poeta è fra tutti il più ambiguo. Tanto il suo ultimo film, Salò, che il suo ultimo romanzo, Petrolio, vengono da lui presentati come «misteri»; ma anche La nuova gioventù, che esce nella primavera del ’75, presenta una serie di interrogativi ancora senza risposta. Anzitutto è un libro manifestamente uno e bino: nella sua prima parte il testo delle poesie in friulano, raccolte in forma organica vent’anni prima col titolo La meglio gioventù, viene ripetuto pressoché tale e quale; mentre nella seconda viene replicato solo in apparenza identico, presentando invece una serie di sottili variazioni e riscritture che spesso capovolgono il senso di quelle poesie scritte a vent’anni. In copertina c’è una foto del Pasolini di allora, in divisa da giovane milite, presa dal suo libretto universitario bolognese dei primi anni Quaranta: la freschezza di quei versi giovanili, ancorché intrisi d’una decadente fascinazione per la morte, si presenta dunque come ingiallita (al modo dell’iconografia anni Sessanta che conclude un altro libro licenziato nel ’75, La Divina Mimesis).
Ha scritto Andrea Zanzotto che «La nuova gioventù è un ricamminare sopra La meglio gioventù, anche calpestandola»11; mentre Jean-Michel Gardair, che all’operazione ha dedicato un intero libro, l’ha definita uno «specchio ustorio»12. Si tratta insomma di un gesto letterariamente sadomasochistico, che in questo assomiglia all’Abiura della «Trilogia della vita» raccolta nelle Lettere luterane, o anche alla recensione spietatamente analitica scritta da Pasolini stesso (Saggi II, 2575 sgg.), in terza persona, alla sua raccolta precedente Trasumanar e organizzar: nella quale si era imputato una «situazione “schizoide”» e in effetti più volte aveva contraddetto giudizi e posizioni da lui attribuiti all’«autore», cioè a sé stesso.
Le figure di sdoppiamento «schizoide» sulle quali s’imperniano i suoi ultimi testi narrativi, La Divina Mimesis e Petrolio, tornano anche nella Nuova gioventù, e non solo in ragione del suo impianto, s’è detto, bipartito e imperfettamente speculare. La luce è frutto di un buio seme, aveva scritto nell’Umile Italia delle Ceneri di Gramsci, e mai come in questo suo passo d’addio alla poesia Pasolini ci presenta – in una sezione di componimenti aggiunti che torna a scrivere almeno in parte in friulano, e ai quali dà un titolo schizoide tratto da Dostoevskij, Tetro entusiasmo – un’immagine scissa e quanto mai tetra.
L’ultimo componimento dell’ultimo libro di poesia di Pasolini non può non essere letto che come un testamento: anche perché l’autore definisce Saluto e augurio – questo il suo titolo (Poesie 2003, II, 513 sgg.) – «un discors / ch’al somèa un testamìnt» appunto. A questo episodio senz’altro Pasolini annette un significato decisivo, se è vero che lo riformula anche nel monologo finale di un tormentato dramma autobiografico uscito postumo, Bestia da stile, e nell’ultimo dibattito da lui sostenuto, in un liceo di Lecce nell’ottobre del ’75, pubblicato anche questo dopo la sua morte col titolo Volgar’eloquio.
Ma è un testamento quanto mai problematico, quello indirizzato a «un fassista zòvin»: un giovane fascista poco più che ventenne al quale Pasolini devolve il proprio ultimo e disperato sforzo pedagogico, impartendogli comandamenti come «Difìnt, conserva, prea!» («difendi, conserva, prega!»). Chi prende la parola in Saluto e augurio si presenta come un novello Socrate che si rivolga a Fedro; ma il suo è uno sforzo disperato e davvero tetro in quanto sa di rivolgersi da morto (e in effetti prossimo alla morte) a chi, ancorché giovane, è già «morto» a sua volta («encia si ti sos un muàrt, ti parlarài»). Già molto tempo prima dello «scàndul» che Pasolini sa di destare col suo Saluto e augurio aveva scritto, senza pubblicarla (nel ’61, all’indomani di una contestazione subita da ragazzi fascisti alla prima di Accattone in un cinema di Roma), una Ballata per i giovani missini (Poesie 2003, I, 1352-4) nella quale senza acrimonia si rivolgeva loro con «una mano sulla spalla», chiamandoli «stupende / anime di giovani» e «suoi barbari figli»: i loro «insulti» non lo toccano perché lui è «altro / da quello di cui il loro odio esulta», e perché sa che essi sono «posseduti da una forza irreale».
A questa forza irreale, a questa ideologia cioè, Pasolini ha sempre dato il nome di «fascismo»; ma col tempo ha chiamato in questo modo fenomeni di volta in volta diversi e anche antitetici. Il fascismo “storico”, quello degli anni Trenta e Quaranta nel quale è cresciuto e che ha poi combattuto «con le armi della poesia» (come aveva scritto in Una disperata vitalità), appartiene negli anni Settanta a un passato archeologico: secondo il Pasolini degli Scritti corsari non ha più senso combatterlo, o millantare di farlo, come si attarda a fare l’ideologia liberale o democristiana egemone nell’Italia repubblicana, la quale anzi secondo lui in questo modo si fa complice di quello che chiama «nuovo» o «vero» fascismo: un potere senza nome che coincide con la società dei consumi di una borghesia sessualmente tollerante e socialmente riformista, colpevole di quello che Pasolini chiama il «genocidio culturale», cioè l’«omologazione» al modello borghese delle culture popolari, operaie e specialmente contadine: «il rigetto del fascismo contemporaneo può allora coincidere», ha scritto Silvia De Laude, «con una paradossale nostalgia del fascismo storico»13 (come all’attacco del fra tutti scandaloso articolo dedicato a Sandro Penna negli Scritti corsari).
I valori tradizionali che queste culture subalterne hanno sempre incarnato – come l’uso dei dialetti, oggetto dell’incontro di Lecce – vanno difesi, secondo Pasolini, perché sono «valori, temi, problemi, amori, rimpianti che in fondo valgono per tutti» – spiega in Volgar’eloquio (Saggi, II, 2827) – anche se «se ne sono appropriati i fascisti». Sa bene che questi valori “conservatori”, che attribuisce a quella che chiama «Destra divina», rappresentano una «palla al piede» per «chi è progressista e democratico e vuole andare avanti», e infatti con mossa retorica paradossale quel «fardello» lo affida al «giovane fascista». Il quale in ogni caso non può essere confuso coi “nuovi fascisti” borghesi (i quali hanno un contrassegno fisiognomico inconfondibile, da Pasolini sempre esecrato, cioè i capelli lunghi): il ragazzo cui si rivolge Saluto e augurio viene invece dalla campagna e soprattutto ha «i ciavèj curs», i capelli corti.
Questo giovane fascista insomma è un’astrazione: una figura tanto ideale quanto paradossale, che non corrisponde ad alcun ragazzo realmente esistente in quel ’75. Perché in effetti è una «forza del Passato». Anche lui, come chi parlava per bocca di Orson Welles nella Ricotta, riconosce il «suo amore» nella «tradizione». E anche lui, infatti, è un «morto»: proprio come il Narciso della Meglio gioventù. Questo titolo infatti già nel ’54 riprendeva un tetro canto alpino che celebrava «la meglio zoventù che va sot’tera»: la voce radicata nella terra friulana in quella terra, in effetti, è stata sepolta una volta per tutte. E allora quell’enigmatico giovane fascista altri non è che l’ennesimo doppio, l’ennesimo sosia imperfetto del poeta che gli si rivolge. Il suo ritratto è appunto quello che sta in copertina alla Nuova gioventù.
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1 Poesie per Pasolini, a cura di Roberto Galaverni, Mondadori, Milano 2022.
2 R. Galaverni, Introduzione, ivi, p. IX.
3 Andrea Zanzotto, Pasolini, «Teorema», film e scritto [1988], in Id., Aure e disincanti nel Novecento letterario, Mondadori, Milano 1994, p. 162.
4 Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll., vol. I, Mondadori, Milano 2003, pp. 1098-9. D’ora in poi il riferimento a questa edizione verrà dato nel testo con l’indicazione Poesie 2003.
5 Franco Fortini, La contraddizione [1959], in Id., Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993. p. 22.
6 Pier Paolo Pasolini, Poesia d’oggi [1949], in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., vol. I, Mondadori, Milano 1999, p. 324 (d’ora in poi il riferimento a questa edizione verrà dato nel testo con l’indicazione Saggi). I due archetipi sono ipostatizzati nella Teoria dei due paradisi degli Allegati di «Teorema» (Pier Paolo Pasolini, Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., vol. II, Mondadori, Milano 1998, p. 1063 sgg.; d’ora in poi il riferimento a questa edizione verrà dato nel testo con l’indicazione RR).
7 Cfr. Gianfranco Contini, Al limite della poesia dialettale [1943], in Id., Pagine ticinesi, a cura di Renato Broggini, Salvioni, Bellinzona 1981, pp. 110-5.
8 Fernando Bandini, Il “sogno di una cosa” chiamata poesia, in Poesie 2003, I, p. XXXIV.
9 Gianfranco Contini, Testimonianza per Pasolini [1980], in Id., Ultimi esercizî ed elzeviri, Einaudi, Torino 1988. Cfr. Pasolini, Antologia della lirica pascoliana. Introduzione e commenti, a cura di M.A. Bazzocchi, Einaudi, Torino 1993.
10 Cfr. Gianfranco Contini, Il linguaggio di Pascoli [1958], in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi, Einaudi, Torino 1970.
11 Andrea Zanzotto, Pasolini poeta [1980], in Id., Aure e disincanti, cit., p. 159.
12 Jean-Michel Gardair, Narciso e il suo doppio, Bulzoni, Roma 1996, p. 161.
13 Silvia De Laude, Fascismi, in Pasolini, ipotesi di raffigurazione, catalogo della mostra a cura di Marco Delogu, Madrid, Istituto italiano di cultura, 17 giugno-10 settembre 2022, Punctum, Roma 2022, p. 54.