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Pasolini in Russia
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Pasolini in Russia
Nella biografia e nell'opera di Pasolini la Russia occupa un posto di primo piano, sia per motivi ideologici, sia grazie al fascino della grande letteratura russa. Ma qual è stata, viceversa, la fortuna di Pasolini nella cultura russa? Come è stata e come viene oggi recepita la sua opera? Ce ne parla in questo podcast Francesca Tuscano, autrice di studi su questo tema.

Nella biografia e nell'opera di Pasolini la Russia occupa un posto di primo piano. In primo luogo, per motivi ideologici, del tutto comprensibili per un intellettuale europeo di allora orientato “a sinistra”, e che dunque guardava con interesse e con un certo idealismo al modello sovietico. Ma, ancor prima di questo, era stata la grande stagione del romanzo russo ottocentesco ad averlo affascinato nell’adolescenza. Quando poi nell’estate del 1957 si recò a Mosca per partecipare al festival internazionale della gioventù e degli studenti, l’impressione fu grandissima. Ma qual è stata, viceversa, la fortuna di Pasolini nella cultura russa? Come è stata e come viene oggi recepita la sua opera? Ce ne parla in questo podcast Francesca Tuscano, autrice del libro "La Russia nella poesia di Pier Paolo Pasolini".

 

Francesca Tuscano

Quanto sto per dire somiglia a una cronologia. E spero che chi mi ascolta mi perdonerà per questo. Ma in Russia la presenza di Pasolini artista e intellettuale è così lunga e significativa, che ha bisogno di seguire una strada. Diversamente, ci si può perdere. La strada inizia in un punto cronologicamente e topograficamente ben preciso – Mosca, luglio 1957. Pasolini partecipa al VI Festival Internazionale della Gioventù e degli Studenti. «Vie nuove», la rivista del Partito Comunista Italiano con la quale collabora, lo manda nella capitale sovietica come suo inviato.

Il poeta può finalmente conoscere la terra di Dostoevskij che, con Shakespeare, è l’autore che, sin dall’adolescenza, lo ha formato come uomo e come scrittore. Così scopre un mondo incredibilmente famigliare, stranamente simile al Friuli della sua giovinezza e alla Roma popolare nella quale ha vissuto.

Al ritorno, pubblica il suo reportage, intitolato Festa di paese per trentamila (34.000 sono i partecipanti al festival, provenienti da 134 paesi). Scrive: «Entrare in Mosca per la prima volta […] è di una estrema dolcezza. Verso sera, con un fiume di luci intorno, non pare affatto una città straniera. Pare di esserci sempre stati. Immaginate la periferia di Milano o meglio ancora di Torino, naturalmente ingrandita (ma non moltissimo): con elementi di disordine, però, diciamo poetici, cromatici. Mosca è una immensa Garbatella: un misto dunque di Liberty e di Novecento, con pareti colossali e graticci di finestre. Spesso tuttavia, con stile di casette basse, ad un piano o due piani, come se ne incontrano nelle città provinciali del Nord: Vicenza, Treviso o Udine. In questo paesaggio urbano – immenso e familiare – galleggiano ogni tanto dei grattacieli – quegli “orrendi” edifici, condannati da Krusciov: Ma non sono insopportabili. Ispirano anzi della simpatia. Sono case commoventi, come tutti gli sforzi degli umili per apparire grandi».

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Mosca sembra a Pasolini una città di contadini. La domenica file di donne e di vecchi si siedono su vecchie panche davanti alla porta di casa, con i fazzoletti in testa, e le mani nel grembo, simili a quelli del Friuli di Casarsa. «Sono felice di avere conosciuto questa gente», scrive ancora.

Il giornalista Aldo Biscardi, anche lui inviato a Mosca, ricorda che Pasolini chiedeva alla sua interprete Valja di accompagnarlo in case private o in periferia. Una sera Valja lo porta lungo la Moscova, nell’estrema periferia della capitale. Il poeta vuole fare il bagno nel fiume ed è “stranamente felice”. Incontra un “ragazzetto”, e la sua felicità arriva alla commozione. «Il nostro ritorno fu preceduto da un ultimo strappo di gioia di Pasolini – scrive Biscardi – che scese rapido dalla macchina e strinse a sé un ragazzetto biondo e smarrito, di otto o nove anni, che si divertiva a quell’ora con un attrezzo agricolo, vicino alla sua abitazione di legno sulla strada bianca che porta a Leningrado».

Per il poeta, l’incontro con quel piccolo figlio di contadini è un segno straordinario. Appena fuori Mosca, città immensa, è possibile ancora incontrare e abbracciare gli stessi umili e dolci ragazzini di cui era stato insegnante durante la guerra, in Friuli, nella scuola creata insieme alla madre. Forse, nell’Unione Sovietica post-staliniana esisteva davvero la possibilità (unica) di un futuro diverso, nel quale la bellezza dell’antico mondo contadino è salva, pur all’interno di una società protesa verso il futuro? La gioia di vivere che aveva visto nei giovani che frequentavano la Piazza Rossa di notte era il segno di una società più umana?

Concludendo il suo reportage, Pasolini scrive: «La cosa più bella di Mosca è la Piazza Rossa di notte. Sotto le mura del Cremlino che si stende complicato e leggero con le sue cupole moresche e i suoi fastigi settecenteschi nel cielo grandissimo della città, vengono ad ammassarsi chissà per quale misterioso accordo (ma pare sia una specie di tradizione) migliaia e migliaia di giovani, una folla sterminata. Ma l’aria è paesana: sembra la sagra di un villaggio di contadini. Non c’è niente, nemmeno un chiosco, niente. Solo questa folla sterminata di ragazzi e di ragazze. Un’allegria come non ne ho viste mai li agita, li fa ridere, scherzare. Sono vestiti come i contadini la domenica: ma forse ancora più poveramente, e rozzamente. Girano a gruppi, assetati di divertirsi, di conoscere. Accerchiano gli stranieri, fanno con loro conversazioni interminabili. Giocano fra loro ai giochi che si usano da ragazzini nelle piazzette dei paesi. Fanno giochi, i figli, secondo antiche e ininterrotte tradizioni contadine. L’immensità si frantuma in mille umili atti pieni di una storia di cose come non abbiamo mai visto né immaginato».

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Al ritorno da Mosca, tra il 1957 e il 1959, Pasolini scrive La religione del mio tempo, e dedica un’intera sezione della raccolta ai giovani russi conosciuti a Mosca. Entra stabilmente nel gruppo degli scrittori, artisti e intellettuali italiani vicini all’associazione “Italia-URSS”. È sempre presente alle riunioni organizzate in Italia tra autori italiani e sovietici. Il suo nome compare sempre più spesso nelle riviste sovietiche che si occupano di cinema e di letteratura. Nel 1962, sulle pagine della «Inostrannaja literatura» appare la prima traduzione in russo di una sua poesia, Ballata intellettuale per Titov, dedicata al giovanissimo cosmonauta che apparirà un anno dopo nel film La rabbia.

Da quel momento, e fino alla fine degli anni Sessanta, l’opera di Pasolini verrà tradotta in russo più volte. Nel 1963, interrogato da Mino Monicelli per «L’Europeo» sul “giro di vite culturale in Russia”, Pasolini dice: 

Alla Garbatella, in un dibattito sulla libertà d’espressione, la censura, eccetera eccetera, a un pubblico di operai ho raccontato questo sogno. Io avevo scritto un poema (che mi pareva, com’è nei sogni, stupendamente pregno di significati, grondante di espressività, assoluto) in una pergamena, o, comunque, in un materiale prezioso… Ed ecco che mi trovavo legato nel mio letto, con dure catene, impotente: e un linguaggio si levava nella mia stanza, un linguaggio tedioso, pignolo, che forse un tempo conoscevo anch’io, ma che ora non ricordavo più. Erano tre topi che rodevano, rimuginanti, le mie carte. Io cercavo, col mio linguaggio, di farmi capire, di spiegar loro il valore del mio poema. Nulla. Io ero legato. E i nostri linguaggi si applicavano a significati diversi: non c’era possibilità di comunicazione. Al mattino, potei alzarmi, e vidi il mio testo orrendamente abraso, uno straccio. [...] Ora, per Krusciov, vorrei continuare a parabolare. Ecco il sogno. Io avevo scritto un poema (che mi pareva, com’è nei sogni, eccetera eccetera): questo poema, come quello del sogno precedente, raccontava la vita di una razza che il mondo ufficiale non vuol conoscere, affrontava, in civilissime barbariche rime, problemi che il mondo ufficiale non vuole affrontare. Io tremavo, temevo la prigione… Invece no! Il presidente della repubblica diede il suo alto, muto consenso, e il capo del governo, e leader del partito dominante, si preparò coscienziosamente, e, in qualche bella sala della nazione, a Roma, o a Milano, pronunciò un discorso di cinquanta pagine sui problemi estetici e poetici suscitati dal mio poema: condannandoli, è vero, ma sul piano della polemica letteraria. Subito una ventina o una trentina di milioni di italiani, anziché interessarsi ai telequiz, cominciarono a leggere testi di estetica, di poesia, di letteratura, divorarono tutti gli articoli di polemica letteraria, fecero capannelli per le strade e nei bar, ascoltando poeti recitare i loro versi. In Italia, capite? E io che temevo di andare in prigione! Postilla: sono assolutamente convinto che, nell’URSS, i tempi di Stalin non torneranno più.

Con questa affermazione Pasolini voleva intendere che nell’URSS post-staliniana il ruolo dell’intellettuale era centrale, anche nel dissenso. Potere e intelligencija potevano usare un linguaggio comune, che era comprensibile al resto della società. Nell’Italia del boom economico, invece, l’intellettuale non aveva alcuna speranza di comunicare, né con il potere né con la società.

Certo, i tempi di Stalin non sarebbero tornati più, ma già si preannunciavano quelli della stagnazione di Brežnev. Nel 1966 Pasolini si schiera apertamente (con altri intellettuali italiani di sinistra – Arbasino, Fortini, Elsa Morante, Moravia, Piovene, Sereni, Silone, Calvino) contro la condanna degli scrittori Andrej Sinjavskij e Jurij Daniel’. Nel febbraio di quell’anno Pasolini è invitato a Mosca alla “Settimana del cinema italiano” per presentare Il Vangelo secondo Matteo, ma decide di non partecipare alla tavola rotonda tra cineasti italiani e sovietici. Si crea una frattura insanabile tra Pasolini e l’intelligencija ufficiale sovietica. Le sue posizioni di marxista non allineato anche all’interno del Partito Comunista Italiano aggravano ulteriormente questa divisione.

Gennadij Trifonov, studioso di Pasolini, scrive che «alla fine degli anni 60 […] al Ministero della Cultura ritenevano che Pasolini fosse comunista come L. I. Brežnev era Papa. [...] La visione dei film di Pasolini fu impedita, e tutte le pizze, sigillate in scatole di ferro, furono riunite negli scaffali degli archivi della polizia segreta» [Pier Paolo Pasolini. Segodnja ja dolžen byl bol’še ne byt’].

Pasolini non viene più tradotto. Nel 1968 e nel 1975, sulle pagine della «Inostrannaja literatura», rivista che pure lo aveva seguito con attenzione e ammirazione fino alla metà degli anni Sessanta, appaiono due articoli (di Cecilija Kin e di Georgij Bogemskij e Aglaja Bogemskaja) che criticano duramente le posizioni politiche di Pasolini. La Kin accusa il poeta di non conoscere o sottovalutare l’insegnamento leninista, ne ridicolizza l’impegno civile, lo nega come interprete significativo della situazione politica italiana.

Qualche mese prima dell’omicidio di Pasolini, Georgij Bogemskij e Aglaja Bogemskaja si scagliano contro le affermazioni del poeta sullo sviluppo, già condannate in Italia sia dalla sinistra che dalla destra. E gli autori dell’articolo si servono proprio delle accuse già usate in Italia per attaccare le posizioni pasoliniane sul genocidio antropologico nato con il boom economico degli anni Sessanta. Enfatizzano la supposta simpatia del poeta per l’Italia fascista (conformandosi alla superficiale e strumentale interpretazione della nostalgia pasoliniana per il mondo preconsumistico considerata come espressione di un’ideologia conservatrice e filofascista). Bogemskij e Bogemskaja, insomma, attaccano Pasolini in Unione Sovietica con gli stessi argomenti e la stessa violenza degli intellettuali interni al Partito Comunista Italiano.

Eppure, ancora nel 1974, Pasolini non aveva smesso di sperare nel modello sociale sovietico:

Ciò che più impressiona camminando per una città dell’Unione Sovietica è l’uniformità della folla [...] Il ‘sistema di segni’ del linguaggio fisico-mimico, in una città russa, non ha varianti: esso è perfettamente identico in tutti. Qual è dunque la proposizione prima di questo linguaggio fisico-mimico? È la seguente: «Qui non c’è più differenza di classe». Ed è una cosa meravigliosa. Malgrado tutti gli errori e le involuzioni, malgrado i delitti politici e i genocidi di Stalin […], il fatto che il popolo abbia vinto nel ’17, una volta per sempre, la lotta di classe e abbia raggiunto l’uguaglianza dei cittadini, è qualcosa che dà un profondo, esaltante sentimento di allegria e di fiducia negli uomini. Il popolo si è infatti guadagnato la libertà suprema: nessuno gliel’ha regalata. Se l’è conquistata. Oggi anche nelle città d’Occidente – ma io voglio parlare soprattutto dell’Italia – camminando per le strade si è colpiti dall’uniformità della folla [...] E si può dunque dire, come per la folla russa, che il sistema di segni del linguaggio fisico-mimico non ha più varianti, che esso è perfettamente identico in tutti. Ma mentre in Russia ciò è un fenomeno così positivo da riuscire esaltante, in Occidente esso è invece un fenomeno negativo da gettare in uno stato d’animo che rasenta il definitivo disgusto e la disperazione. La proposizione prima di tale linguaggio fisico-mimico è la seguente: «Il Potere ha deciso che noi siamo tutti uguali»1.

E nell’introduzione alla traduzione di Le betulle nane di Evtušenko, il Pasolini disperato che stava scrivendo Petrolio e già pensava a Salò, affermerà, con lo stesso slancio del 1957, che i giovani russi sarebbero stati più fortunati dei loro coetanei occidentali: «Saranno figli fortunati. Non avranno conosciuto la breve e atroce stagione del consumismo, né quella della coincidenza tra Rivoluzione e Potere. […] Tra vent’anni in URSS varrà la pena vivere».

Nel novembre del 1975 «Inostrannaja literatura» ignorerà la notizia dell’assassinio di Pasolini. Trifonov ricorda: «In Unione Sovietica, dove i film di Pasolini erano dati come il salame all’Eliseev, dall’“entrata nera”, in visioni chiuse, nel Dom kino, la morte di un cattolico comunista e, come si dice adesso, gay dichiarato, rimase inosservata. La rivista "Iskusstvo kino" borbottò qualcosa di confuso in un paio di capoversi. E fu tutto» [Pier Paolo Pasolini. Segodnja ja dolžen byl bol’še ne byt’].

Nel 1984 Pasolini viene di nuovo tradotto (esce una nuova antologia di suoi scritti), e cinque anni dopo appare un volume curato dall’Istituto Italiano di Cultura intitolato Pier Paolo Pasolini. Mif i sachral’nost’ techniki. Ma fino agli anni Novanta rimane tra gli autori di cui è meglio non occuparsi. Il critico cinematografico Andrej Plachov scrive: «Ricordo che rivolsi agli organi competenti la domanda di visionare alcuni film di Pasolini per un saggio cui stavo lavorando. La risposta fu agghiacciante. Mi fu detto che la richiesta di vedere certi film, come Le 120 giornate di Sodoma, poteva di per sé far nascere dei sospetti nel KGB. E dire che eravamo alla vigilia della perestroika» («La voce della Russia», 13 febbraio 2009).

È nella Russia post-sovietica che Pasolini diventa di nuovo uno scrittore tradotto, studiato, riconosciuto come uno dei maggiori intellettuali della letteratura contemporanea. Nel 2000 è pubblicato Teorema, la più ricca raccolta di traduzioni in russo di opere di Pasolini. Seguono una lunga serie di edizioni di testi teatrali, poesia, saggistica, prosa, fino a giungere, nel 2015, alla prima traduzione di Petrolio, l’ultima grande opera di Pasolini, rimasta incompiuta. Un lungo stralcio del romanzo è tradotto e presentato da Vladimir Luk’jančuk sulle pagine del «Mitin Žurnal».

Ai nomi di importanti studiosi come Vjačeslav Ivanov, che avevano scritto di Pasolini negli anni Sessanta, si affiancano ora quelli di un teorico come Oleg Aronson e di tre noti autori della letteratura russa contemporanea, come Evgenij Evtušenko, Eduard Limonov, Kirill Medvedev. Nel 1990, Evgenij Evtušenko (che era rimasto amico di Pasolini anche quando era ormai inviso all’ufficialità sovietica) scrive del Vangelo secondo Matteo nel volume Politika – privilegija vsech, ricordando come il poeta-regista avesse inizialmente chiesto a lui di interpretare il ruolo di Cristo. Nel 2003 Eduard Limonov inserisce il ritratto di Pasolini tra i mostri sacri del Novecento a cui dedica una raccolta. Nel 2007 Kirill Medvedev scrive dell’impegno politico di Pasolini introducendo sue traduzioni di saggi e poesie che avevano creato scandalo nella sinistra italiana e sovietica, come Il PCI ai giovani!

In ogni studio, in ogni scritto dedicato a Pasolini, risulta evidente la grande forza di attrazione esercitata presso l’intelligencija russa da un autore paradossale, contraddittorio (queste le definizioni più diffuse nella letteratura critica russa su di lui), ma profondamente vicino al modo russo d’intendere il ruolo dell’intellettuale. L’impegno civile vissuto fino in fondo, la passione per il Passato (il “tema della Storia”, scrive Aronson), l’attenzione scientifica e appassionata per la lingua e i linguaggi, il problematico rapporto con la fede cristiana, la prossimità con la morte e il sacrificio sono tutte caratteristiche rinvenute dai russi in Pasolini come nei loro autori più grandi (e, d’altro canto, sono le stesse caratteristiche che affascinarono anche Pasolini nella letteratura e nella cultura russe, in Dostoevskij, Tolstoj, Gogol’, Mandel’štam, Majakovskij, Achmatova).

Aleksej Tkačenko-Gastev, uno dei più importanti traduttori della poesia pasoliniana, ha scritto: «Sembrerebbe che alcuni parallelismi nella storia dell’Italia e della Russia (il periodo del totalitarismo alla metà del XX secolo, l’entusiasmo di alcune generazioni per le idee socialiste e la loro totale disillusione negli ultimi decenni del secolo, e anche la coesistenza, nella mente della gente, incomprensibile per i paesi di mentalità protestante, di religione e socialismo) rendano molti versi di Pasolini vicini al lettore russo, e in alcuni di essi egli, forse, come in uno specchio, vede se stesso e la vita che lo circonda».

Pasolini è il più russo tra gli scrittori italiani. Perché, esattamente come un classico della letteratura russa, adempie il compito politico, oltre che estetico, di leggere, per tutti, la realtà e la storia. Un compito ai limiti del sacro nella cultura russa, di cui Pasolini è interprete pressoché unico nella cultura italiana ed europea. E per questo, forse, in Russia è stato ed è così tanto amato, ma anche così tanto ferocemente criticato. 

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1 Pier Paolo Pasolini, 11 luglio 1974. Ampliamento del “bozzetto” sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Id.,  Scritti corsari).