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Pasolini narratore
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Pasolini narratore
Silvia De Laude, co-curatrice dell’edizione delle opere di Pasolini in 10 volumi, pubblicata dall’editore Mondadori, ci accompagna in questo podcast attraverso l’opera in prosa dello scrittore, dai primissimi tentativi di scrivere in una prosa lirica e autobiografica, precedenti a "Ragazzi di vita", fino all’incompiuto "Petrolio", pubblicato postumo.

Silvia De Laude, co-curatrice dell’edizione delle opere di Pasolini in 10 volumi, pubblicata dall’editore Mondadori, ci accompagna in questo podcast attraverso l’opera in prosa dello scrittore, dai primissimi tentativi di scrivere in una prosa lirica e autobiografica, precedenti a "Ragazzi di vita", fino all’incompiuto "Petrolio", che nelle intenzioni di Pasolini doveva essere un romanzo-fiume di oltre 2000 pagine (pubblicato postumo, ne conta solo poco più di 500). A proposito di "Ragazzi di vita" Pasolini ha scritto: “non ho inteso fare un romanzo nel senso classico della parola (...) ma una testimonianza della vita da me vissuta per due anni in un rione a Roma”. Scopriamo come si arriva da questa forma di neorealismo alla potenza visionaria, anche se per lampi e frammenti, che illumina la trasformazione della vita occidentale in "Petrolio".

 

Silvia De Laude

Il saggio introduttivo di Walter Siti ai volumi di Romanzi e racconti della nostra edizione delle opere complete nei «Meridiani», Descrivere, narrare, esporsi, comincia con un’osservazione molto giusta: «se pensiamo solo ai romanzi che Pasolini ha pubblicato in vita, e all’ordine in cui li ha pubblicati, possiamo anche avere (come infatti spesso la critica ha avuto) l’impressione di un’occasionalità un po’ velleitaria ed eteroclita». Rispetto all’ininterrotta fedeltà alla poesia in versi, o all’energia spesa per il cinema, il lavoro di Pasolini sulla forma romanzo può apparire legato al partito preso di esercitare il suo talento in tutti i generi possibili, e magari anche all’ansia di successo, più che a un’intima necessità. Considerando solo il suo decorso editoriale (e pubblico), Pasolini può sembrare un narratore per caso: un poeta o un regista prestato occasionalmente alla narrativa, che tocca il suo apice con Ragazzi di vita e Una vita violenta, nel momento della “cotta” per le borgate e per il realismo, dell’adozione del discorso indiretto libero e di tante commosse frasi rubate sulla bocca dei giovani parlanti romani.

La composizione del primo libro è travagliata (l’ho raccontata nel libro I due Pasolini, Carocci 2018). Ragazzi di vita esce nel maggio del 1955 presso Garzanti, il cui giovane e spregiudicato titolare – messo sulle sue tracce da un consulente d’eccezione come Attilio Bertolucci – fiuta subito quello che si prospetta (e verrà puntualmente conseguito) come un succès de scandale. Livio Garzanti s’innamora in particolare di alcuni “cartoni” che Pasolini, all’indomani del suo peritoso arrivo a Roma, pubblica sulle riviste più prestigiose del tempo. Nel ’51 esce per esempio su «Paragone», la rivista fondata dal suo venerato maestro Roberto Longhi, il racconto Il Ferrobedò, il cui titolo deforma in romanesco l’insegna di uno stabilimento industriale dei sobborghi di Monteverde (la «Ferro-Beton» che, come dice il suo nome, lavorava metalli e cementi): questo resterà, sino all’inizio del ’55, il titolo di lavoro del libro che infine accoglierà al suo interno queste pagine. Un titolo sintomatico, come pure quello di un altro futuro capitolo che la medesima rivista pubblica nel ’53, Regazzi de vita: dove l’assunzione linguistica del milieu, sin dalle parole del narratore al quale convenzionalmente rinvia il titolo, è la medesima di un grande modello che Pasolini tiene sempre presente: quel Carlo Emilio Gadda che nel ’45-46 aveva pubblicato sulla rivista «Letteratura» i primi capitoli di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. «Monumento alla plebe di Roma», per dirla con un phare di entrambi gli inurbati come il Belli, il Pasticciaccio entra però nei labirinti nevrotici del suo autore e vedrà la luce solo due anni dopo l’exploit del suo discepolo: dallo stesso Garzanti nel 1957 (ma, a differenza di Pasolini, a Garzanti Gadda non darà mai il promesso seguito). 

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La “normalizzazione” linguistica del titolo in Ragazzi di vita non sarà l’unico tributo pagato da Pasolini alle cautele dell’editore, che gli imporrà di moderare il tasso di turpiloquio e di censurare un paio di scene considerate sessualmente disinvolte (rinvio a Pasolini censurato), senza che peraltro questo risparmi ai due un clamoroso processo per oscenità, primo di una lunga serie, al quale deporranno in difesa di Pasolini letterati importanti come Carlo Bo («il libro ha un grande valore religioso perché spinge alla pietà verso i poveri e i diseredati) e Giuseppe Ungaretti («Pier Paolo Pasolini è lo scrittore più dotato che oggi possediamo in Italia»). Nell’estate del ’56 il Tribunale di Milano assolve autore ed editore, e dissequestra il romanzo.

Nel verbale del processo, così si difende lo stesso Pasolini: «Io non ho inteso fare un romanzo nel senso classico della parola, ho voluto scrivere un libro. Il libro è una testimonianza della vita da me vissuta per due anni in un rione a Roma. Ho voluto fare un documentario […]; anche nei discorsi indiretti, pur essendo io a parlare, cerco di pensare con la mentalità dei ragazzi e riporto in modo indiretto le battute dei ragazzi. Intendevo proprio presentare con perfetto verismo una delle zone più desolate di Roma». L’apertura precoce alle retoriche della non fiction a venire, insomma, lascia il passo al tòpos del Lasciva est nobis pagina, vita proba. Ma anche il dispositivo della sentenza d’assoluzione – oh gran bontà de’ giurisconsulti antiqui! – non manca di proprietà critiche: quando annota che Ragazzi di vita «forse del romanzo non ha l’ampiezza delle proporzioni quanto meno, l’unitarietà della trama […]; non si distingue più il personaggio di secondo piano e quello di contorno, ma tutti rimangono, d’altro canto, ignoti a se stessi, ignoti agli altri, inconoscibili, impenetrabili». 

In effetti Ragazzi di vita è testo “plurale”: sin dal titolo, a ben vedere (come dire The Dubliners trasposto nelle periferie di Roma…); e molta parte della critica – da Anna Banti a Franco Fortini – farà lo stesso rilievo del Tribunale di Milano, considerandolo più una successione di racconti che un romanzo vero e proprio. Ma questo aspetto faceva parte appieno dell’idea che del suo «libro», come lo chiamerà a processo, aveva lo stesso Pasolini. Il quale alla fine del ’54 aveva scritto a Livio Garzanti una lunga lettera: «del “Ferrobedò” è impossibile riassumere decentemente la trama, poiché una trama nel senso convenzionale non c’è. Riassumendolo si rischierebbe di giustapporre una serie di fatti, e si avrebbe l’impressione di un arazzo». La spinta centrifuga porta a un’organizzazione multipolare, ma in parte anche multifocale, che cogli occhi di oggi possiamo considerare, anziché una debolezza, il vero punto forte del testo. Come ha scritto Marco Antonio Bazzocchi1, «anche lo statuto della parola (dialogata o narrata) entra in questo circolo di scambio, in un accumulo che ne cancella il valore semantico e la trasforma in suono ai limiti dell’insignificante», in una successione di mille episodi, o siparietti, o «pezzi». «Stà a sentì ’sto pezzo» dice a un certo punto il protagonista del romanzo, il Riccetto, introducendo una delle sue «sbrasate»; e «pezzo» per Pasolini era una specie di termine tecnico che indicava l’unità di misura dei parlanti romani, specie se giovani (lo dice in un saggio del ’57, Il gergo a Roma)2. Proprio l’irresistibile sensualità del paesaggio sonoro è il movente primo, pare di poter dire, della scrittura di questo Pasolini.

Il successo del libro è clamoroso (come previsto da Garzanti, anche per le reazioni piccate dei letterati vieux jeu come Emilio Cecchi, e dei marxisti ortodossi come Carlo Salinari), e a Pasolini cambia letteralmente la vita. Non sorprende, conoscendo editore e autore, che quest’ultimo si metta subito al lavoro su quello cui pensa, all’inizio, come a un addendo similare di sicura presa. Non sarà così, però. L’ancorché travagliata freschezza dell’esordio non verrà ripetuta. Forse tenendo conto anche di quelle critiche malevole (specie da parte comunista), Pasolini vuole un libro che di Ragazzi di vita sia la continuazione ma anche il consolidamento: una trama più strutturata, incentrata su un unico protagonista, il «ragazzo» Tommaso Puzzilli, e sulla sua “formazione”: che è anche una precisa presa di coscienza politica, col passaggio al PCI dopo una confusa militanza nella destra dell’MSI. Con Una vita violenta (che esce, sempre da Garzanti, nel maggio del 1959), Pasolini tenta insomma – pur senza cambiare completamente stile – una faticosa correzione di rotta. Si costringe a un romanzo di tipo tradizionale, ma la solidità e la compattezza della trama se le era auto-imposte, e gli era venuto addirittura da ribellarsi a sé stesso, seguendo il suo istinto di poeta: in una redazione del romanzo che precede quella definitiva, la morte di tisi del protagonista viene raccontata infatti in versi, terzine un po’ sghembe come se ne trovano nelle Ceneri di Gramsci

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Alla pubblicazione del secondo romanzo romano, Pasolini presenta Una vita violenta come anta di un’ideale trilogia da concludere con un terzo episodio del quale la quarta di copertina anticipa il titolo, Il Rio della Grana. Ma quella terza anta, lì data per imminente, Pasolini non l’avrebbe mai conclusa. La crisi è radicale, e non appare risolta né dalla pubblicazione di un libro di viaggi (L’odore dell’India esce nel ’62), né dal recupero di cose giovanili riscritte nella forma di una riconosciuta “contraffazione d’autore” (è questo, Il sogno di una cosa che esce nello stesso ’62), né da Alì dagli occhi azzurri, del ’65, che pure contiene pagine straordinarie, o da quel corollario al cinema che è il Teorema romanzo, del ’68: al quale segue infatti un lungo silenzio. L’intervallo sarà interrotto solo nel ’75 dalla Divina Mimesis, che riprende frammenti di un ambizioso progetto di riscrittura in prosa dell’Inferno dantesco. Pasolini presenta l’opera, a quel punto, come un «documento». E addirittura, nel secondo dei due paragrafetti dell’Introduzione aggiunta in bozze, quasi come «un aborto esposto alle offese» (Siti), sostiene di aver «dato ai suoi nemici una ragione in più per odiarlo, e quindi per andare all’inferno». Ci torneremo.

Il quadro è completamente diverso, però, se esaminiamo tutti i progetti romanzeschi di Pasolini nel giusto ordine cronologico (come abbiamo fatto nei «Meridiani»), senza tenere distinti in volumi o sezioni diverse gli abbozzi e i testi inediti. Forse (è ancora Siti ad osservarlo) gli abbozzi e gli inediti contano ancora più degli editi, «perché quel che resta del Pasolini romanziere è più la tensione verso il romanzo che i singoli romanzi realizzati» – e forse proprio per questo si può sostenere che Petrolio è il più genuino dei romanzi pasoliniani, «perché invece di raccontare una storia racconta il bisogno di fare i conti col romanzo».

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A presentarsi come un narratore per caso, del resto, a volte è stato lo stesso Pasolini. C’è per esempio un poemetto postumo del 1966-67 che si intitola Poeta delle Ceneri. Le «ceneri» sono quelle di Gramsci che danno il titolo alla sua più celebre raccolta poetica, pubblicata nel ’57: sicché il «poeta delle Ceneri» per antonomasia è lui, Pasolini. Lo spunto del poemetto è la richiesta reale o fittizia di una sua nota bio-bibliografica. Il testo comincia annalisticamente con la nascita a Bologna; evoca poco dopo il trauma della morte del fratello Guido, partigiano; dà largo spazio al libro in friulano dei suoi vent’anni, il micro-canzoniere di Poesie a Casarsa; passa poi alla fuga dal Friuli a Roma, con la madre; rievoca poi appunto, ma brevissimamente, il suo esordio nella narrativa con Ragazzi di vita e Una vita violenta3:

[…] non sto facendo che un poema
bio-bibliografico, torniamo all’argomento:
«Ragazzi di vita» e «Una vita violenta»
sono i titoli di quei miei due romanzi
[…]
scritti nel cuore degli Anni Cinquanta.
Mentre i titoli dei miei libri di versi,
scritti in gestione contemporanea, sono:
«Le ceneri di Gramsci»,
«La religione del mio tempo»,
«Poesia in forma di rosa».

Ma un Pasolini narratore preesiste a Ragazzi di vita, sebbene in questa poesia non ne faccia cenno. Centinaia e centinaia di pagine si collocano fra il ’46 e il ’51 e comprendono, insieme ad alcuni racconti, addirittura cinque romanzi, rimasti per motivi diversi nel cassetto. Tre di questi romanzi (Atti impuri, Il romanzo del mare e La meglio gioventù: titolo questo che poi verrà dato invece alla raccolta organica dei versi in friulano, pubblicata nel ’54) risultano travagliatissimi, oggetto di scritture e riscritture tormentose. Non sono incursioni sporadiche in terra straniera ma un vero continente narrativo sommerso, che coincide con un “periodo” preciso della scrittura di Pasolini – e uso il termine «periodo» proprio come si parla, mettiamo, di «periodo blu» o «periodo rosa» per Picasso: un progetto di scrittura dai tratti distintivi ben riconoscibili, proprio come la dominanza del blu o del rosa in Picasso. È una scrittura che ha come matrice una incontenibile pulsione autobiografica; una scrittura auto-analitica che riesce ad essere, però, anche mimeticamente preziosa; una scrittura dalla sintassi complessa, che esibisce la sua ostinazione ad assecondare le pieghe della sensibilità. Il grande modello di questa stagione, diciamo di questo «periodo» del Pasolini prosatore, è Proust, letto con passione negli anni dell’adolescenza. Un modello dichiarato a volte allusivamente, a volte in modo esplicito.

A spingere Pasolini verso la prosa era stata un’esigenza di autoanalisi, lo sforzo di dire “tutta la verità”. Nel saggio introduttivo al volume di Romanzi e racconti che ho già citato (Descrivere, narrare, esporsi), Siti ha parlato di «un tarlo della sincerità», che «non gli dà pace e rode la pura grazia “irresponsabile” da cui erano nate le Poesie a Casarsa». Scrive nel ’46 all’amica Silvana Mauri, che è in questi anni la sua più intima confidente: «non scrivo quasi più nulla perché sono entrato in uno di quegli stati pieni di disagio, in cui, scrivendo, non si desidera altro che essere sinceri»4. Non è un caso che il primo approccio narrativo sia un diario, i «Quaderni rossi», che Pasolini comincia a tenere nel ’46, e che si apre con alcuni micro-racconti costruiti intorno a ricordi infantili enigmatici. Proust e Freud, altra lettura dell’adolescenza, in questa fase vanno a braccetto. Vi si trovano fantasie ossessive, quasi allucinatorie, come quella d’essere divorato vivo da una tigre, innescata da un’immagine vista da bambino nella locandina di un film, o quella di subire senza colpa un martirio dai tratti scopertamente cristologici.

Direttamente dal diario nasce Atti impuri, il primo tentativo di dar forma a una narrazione autonoma, assumendo come struttura portante il racconto dell’amore turbato di un giovane per un ragazzo più giovane. Pasolini ci lavora per anni ma non riesce a chiuderlo. Nei «Meridiani» è stato pubblicato nella lezione dell’unico testimone, uno scartafaccio che risulta dall’assemblaggio di fogli scritti in momenti diversi e appartenenti a redazioni diverse. Un romanzo non finito, che solo in virtù di un pesante intervento di restauro ricostruttivo è potuto apparire, nell’edizione Garzanti del 1982, come un compiuto e risolto romanzo autobiografico di tono patetico-confessionale: un tipico romanzo d’esordio, lirico ed effusivo, nel quale chi scrive fa del tutto per dimostrare quanto vale, magari un po’ mettendosi in posa. In realtà Atti impuri, di fatto, non è finito: resta un esperimento, il primo di tanti. Il giovane narratore fatica qui a trovare una voce che non sia quella del diario d’origine – prova a trasporre tutto in terza persona, ma presenta il protagonista nell’atto di leggere (nella finzione) parti del suo diario, poi torna alla prima persona, senza rinunciare a far leggere al protagonista passi del suo diario. Nelle parti in terza persona il protagonista è un certo «Paolo» («Paolo», parte del suo nome anagrafico, è il nome-feticcio di tanti avatar di Pasolini, in questa fase e oltre). Sempre a proposito di Atti impuri, a Silvana Mauri, in una lettera dell’11 febbraio 1950, aveva detto: «Ho ripreso il libro, ho alternato il diario alla narrazione in terza persona: insomma, ho oggettivato (nel senso minore di questa parola, non so se anche nel senso maggiore) il fatto, cambiando i nomi dei protagonisti e dei luoghi, ricostruendo tutto con minore impegno di confessione e maggiore libertà d’invenzione». Pasolini è dunque consapevole che il punto non sta nella questione grammaticale della prima o della terza persona. Proust se ne era accorto quando dopo il Jean Santeuil (in terza persona) era riuscito a trovare maggiore autenticità, e insieme maggior distacco da sé, nel «je qui n’est pas moi» della Recherche (così lo aveva definito in un’intervista pochi giorni prima dell’uscita di Du côté de chez Swann). 

Sempre a Silvana Mauri Pasolini presenta Amado mio un po’ come il seguito di Atti impuri, «ma ancor più liberato fantasticamente dalla biografia». E se il protagonista del primo è ancora molto vicino allo scrittore, di Desiderio, protagonista del secondo, è accentuato il versante negativo e cinico della personalità, con implicita una condanna. Colpisce la continua esibizione di frammenti letterari a intarsio (da Eliot a Kavafis, Kafka, Nievo, Sachs, Gide, Tommaseo, Dostoevskij, Proust, Goethe), che impreziosiscono il dettato ma contrastano con la materia del mondo contadino friulano, anticipando (con effetti anche notevolissimi) le tante operazioni manieristiche sulle quali Pasolini punterà più avanti. 

L’espediente del diario inglobato nella narrazione è un tic stilistico del Pasolini giovane narratore. Torna per esempio nelle prime redazioni della Meglio gioventù-romanzo, un esperimento molto complicato che prevedeva l’intreccio di più storie d’amore e di impegno politico (in un’altra lettera a Silvana Mauri, nel 1950, Pasolini lo aveva definito «uno stranissimo incrocio – nel versante dostoiewskiano – tra Proust e Verga, non senza qualche elemento di quel linguaggio babilonico, eccentrico e composito che in Italia ha come magnifico esemplare C.E. Gadda»5. Lì a rileggere il suo diario era un giovane sacerdote, don Paolo (ancora un Paolo!), che in una delle pagine più impressionanti (l’abbiamo pubblicata nei «Meridiani» col titolo L’episodio del vespasiano) è ricondotto al ricordo dei suoi primi turbamenti omosessuali.

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Un diario inglobato nella narrazione si trova anche nel ciclo di racconti I parlanti, che Pasolini pubblica quando è già a Roma, nel ’51 sulla rivista «Botteghe Oscure», ma datandolo al ’48. Questo piccolo ciclo è tra i vertici del continente narrativo sommerso, e coincide con l’apice del proustismo di Pasolini. Ragazzi e paesi stingono gli uni sugli altri, e il narratore li osserva cogli occhi di un antropologo innamorato: «Ma già si delineano nella memoria i luoghi e le ore nei quali è precipitato tutto il mio tempo perduto…»6. Il narratore cita la sua «raccoltina poetica in casarsese», e in effetti già in Poesie a Casarsa (nella poesia Dilio) s’incontrava l’espressione «timp pierdut»: anzi, all’interno di un sintagma rivelatore come «la fres-cie rosade/ dal timp pierdut», dove il riferimento allusivo alla Recherche si trova associata alla parola «rosade», o «rosada» (la parola cioè mai scritta, ma ascoltata da un ragazzo di Casarsa, che l’auto-mito-biografia di Pasolini mette in rapporto col proposito di scrivere poesie in quella lingua vergine).

In quegli anni si colloca anche l’esperimento più singolare di questa stagione sommersa, Il romanzo del mare, che si proponeva di saldare autobiografia e storia del mare per ricostruire il tessuto di un “trauma originario” (è Pasolini a usare, in più occasioni, la parola «trauma»). Il nesso fra la propria storia personale e la storia del mare è di tipo simbolico-metaforico, e parecchio aggrovigliato. Da bambino Pasolini aveva chiamato «teta veleta» le sue prime tentazioni sessuali (lo racconta anche nei «Quaderni rossi»). Pare che Gianfranco Contini gli abbia detto più tardi che «tetis» in greco significa «sesso, sia maschile che femminile»7. Cosa che in realtà non risulta, ma quel che importa è che Pasolini ci credesse e, coinvolgendo la denominazione di Thetys data dai geologi al grande mare triassico da cui si sarebbe formato il Mediterraneo, aveva immaginato un romanzo costruito su un’identità primigenia tra sesso e mare (del progetto restano due frammenti dal titolo Coleo di Samo e Operetta marina: ad alcune delle cui pagine Pasolini dà il titolo La Recherche Sacilese).

Torniamo ancora, per un attimo, a Poeta delle Ceneri. C’è da chiedersi perché Pasolini occultasse o rinnegasse i testi accumulatisi nelle sue carte prima dei due romanzi «scritti nel cuore degli Anni Cinquanta». È vero, il poemetto si presenta come «nota bio-bibliografica», e invece i testi recuperati nei «Meridiani» erano rimasti nei suoi cassetti. C’è però, nel poemetto, una più generale messa in ombra del genere romanzesco. Anche a libri celebri come Ragazzi di vita e Una vita violenta sono dedicati appena due versi, mentre solo a Poesie a Casarsa ne sono dedicati una cinquantina. Poeta delle Ceneri, dicevo, è del 1966-67, ma non spende neanche una parola su Alì dagli occhi azzurri, del ’65, che è pure fra i suoi libri più belli: una raccolta – dice la quarta di copertina, firmata – di racconti «fatti», «non fatti» e «da farsi», che include anche abbozzi di progetti narrativi  rimasti in tronco, come Il Rio della Grana e La Mortaccia; racconti costruiti come trattamenti cinematografici o relazioni per un produttore, come Mignotta e Rital e raton; racconti che inglobano versi, come Appunti per un poema popolare. A conferma della volontà instancabile di Pasolini di contaminare i generi e di evadere dal loro territorio tradizionale. 

Allude sì, il poemetto, a Teorema, insieme ad altre «opere future», ma senza lasciar capire se stia parlando del romanzo o del film che Pasolini prepara con lo stesso titolo. E niente dice dell’ambiziosissima Divina Mimesis, allora a sua volta in corso d’opera. In questo senso, la testimonianza di Poeta delle Ceneri sembrerebbe da intendere in linea con alcune sue dichiarazioni. Nel ’60, per esempio, a un giornalista che gli chiedeva se dopo Ragazzi di vita e Una vita violenta avesse in mente nuove forme narrative, aveva risposto: «Io, in fondo, non sono un romanziere; ho scritto quei due romanzi perché avevo alle spalle un mondo che sentivo» (intervista rilasciata a Adolfo Chiesa, «Paese Sera», 5 luglio 1960). Qualcosa del genere aveva detto nel ’65 nella risposta a un lettore di «Vie Nuove»: «io so scrivere solo in quanto poeta, non in quanto romanziere»8. Sono dichiarazioni da contestualizzare, da non prendere alla lettera – c’è sempre, in lui, la tendenza a dichiararsi altrove, quando si sente in difficoltà, e con il romanzo lo era sia nel ’65 che, soprattutto, nel ’60.

Ma proprio per questa vocazione contrastata credo che dei dieci volumi dell’edizione nei «Meridiani» i due dei Romanzi e racconti siano quelli che offrono più sorprese, per come consentono di ricostruire un percorso di Pasolini diverso da quello che risulta dalla sua storia editoriale e pubblica. Direi che la chiave sta in quel silenzio seguito a Teorema, e nella scelta di recuperare La Divina Mimesis, nel ’75, in una forma che non cerca di occultare ma viceversa ostenta la propria frammentarietà. In questa che resterà la sua ultima stagione Pasolini torna sul suo passato d’autore, e ne cambia il senso: nella Nuova gioventù gli antichi versi friulani, riportati nella prima sezione del volume Einaudi, sono riscritti e capovolti in nero nella seconda, sconciandoli e sfigurandone la grazia quasi per sfregio. Mentre in Petrolio e in Salò capovolto è il mito dei «ragazzi di vita» celebrati nei due romanzi romani scritti «nel cuore degli Anni Cinquanta». All’altezza di Petrolio, a cui comincia a lavorare nel ’72-73, Pasolini si era disamorato delle borgate, la “cotta” era passata, non aveva più occhi per guardarle né orecchi per ascoltarle. Nelle pagine tremende dell’Abiura della trilogia della vita, i ragazzi del popolo si rivelano per quello che erano fin dall’inizio (cito): «degli imbecilli costretti a essere adorabili, degli squallidi criminali costretti a essere dei simpatici malandrini, dei vili inetti costretti a essere santamente innocenti». Sembra che l’orizzonte della santità e dell’innocenza sia morto per sempre.

In Petrolio l’abiura è affidata anche ad auto-citazioni puntuali. A un certo punto – dove è descritto il Merda, l’orrendo ragazzotto che partendo dall’incrocio fra la Tuscolana e la Casilina, con la fidanzatina Cinzia al braccio, si addentra tra i gironi e le bolge di una Roma infernale – si legge: «Una volta i suoi amici gli avrebbero detto: “Pe’ facce un giro attorno, un pidocchio ce metterebbe n’ anno”: ma ora non si usano più espressioni simili» (RR, II, p. 1560). Nella Visione del Merda di Petrolio, la verve dialettale riaffiora come un fossile, ma per essere negata con sarcasmo: «i Riccetti si sono fatti fare il tiraggio» (RR, II, p. 1573): cioè si sono fatti stirare i capelli e così si sono ammazzati da soli, ammazzando insieme chi tanto, a suo tempo, se ne era innamorato.

Nel romanzo postremo e testamentario di Pasolini, l’abiura si riflette anche sul piano dello stile. Ci sono pagine in cui Pasolini fa il verso al sé stesso di vent’anni prima, e prende di mira quegli ossimori, per esempio, che soprattutto nelle Ceneri di Gramsci avevano tradotto la trepidazione e lo sgomento di fronte a una realtà inafferrabile. Carlo, anzi i due Carli («di Polis» e «di Tetis») nei quali si sdoppia per una specie di dissociazione schizoide il protagonista, fa due passeggiate speculari, da incubo. Uno cammina «respirando a pieni polmoni un’aria» definita «diaccia-tiepida, tetra-scintillante», in un «quartiere calmo-tempestoso, spento-fermentante». Sei aggettivi in due righe: ma i commossi grappoli di aggettivi del passato (tantissimi, nelle Ceneri di Gramsci: «avido e prostrato», «pura e corrotta»; «stupenda e misera») non servono più a niente.

Non è neanche un caso che Ragazzi di vita e Una vita violenta fossero romanzi pieni di canzoni, messe in bocca ai ragazzi che le cantavano sgangheratamente per strada, con l’allegra spavalderia di adorabili ribaldi. In Petrolio, invece, è citato solo un lugubre brano musicale d’avanguardia. Nel frattempo Pasolini ha subito delusioni personali, ma ha pure preso atto della trasformazione politica dell’Italia, col volto del Nuovo Potere stampato orrendamente nei corpi, nei capelli e anche nei calzoni dei ragazzi che si sono fatti il «tiraggio». L’Appunto 50 di Petrolio li descrive accalcati su un camion «come bestie portate al macello o come soldati trasferiti da una caserma all’altra». E si conclude: «La vita riprese il suo corso. Ma era successo nella sua profondità un avvenimento irreversibile, con l’annuncio di una nuova gioventù». «Una nuova gioventù», appunto: come quella che dà il titolo all’ultima, disperatissima raccolta di poesie di Pasolini.

Petrolio e La meglio gioventù (ma aggiungiamoci pure Salò) hanno in comune una tonalità funebre, un infernale «color perso». Se Petrolio gronda di citazioni dantesche, in Salò l’ordinamento topografico dell’Inferno è assunto come principio strutturante delle vicende narrate. Non è però solo una questione di tono. Sia nel film che nel romanzo si assiste a una mortifera coazione a ripetere. Quello che era stato all’inizio una specie di infinito mentale del desiderio si riduce, ora, a esasperato, indeterminato scorrere metonimico. Il giovanile erotismo, che negli anni dal ’46 al ’51 era stato la matrice di una specie di misticismo ateo, rivela ora la propria natura distruttiva. C’è una pagina impressionante, nella Divina Mimesis, sullo strazio della ripetizione: Virgilio (in realtà, ipostasi del sé stesso come «piccolo poeta civile degli anni Cinquanta», il sé stesso autore delle Ceneri di Gramsci) illustra al nuovo pellegrino infernale la «tenia» di una ripetizione che si fa ossessione (come in Salò: dove la perversione è angosciante, non un gioioso superamento dei limiti ma, appunto, un vero inferno). Dice allora «Virgilio»:

È una tenia. E tu lo sai. La ripetizione di un sentimento si fa ossessione. E l'ossessione trasforma il sentimento […] Come la ripetizione di una parola nelle litanie […] Ripetizione ch'è perdita di significato; e perdita di significato ch' è significato […]. Ripeti all'infinito la parola sesso: che senso avrà alla fine? Sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso.... Il mondo diventa oggetto di desiderio di sesso, non è più mondo, ma luogo di un solo sentimento. Questo sentimento si ripete, e con sé ripete il mondo, finché accumulandosi si annulla... (RR, II, p. 1086).

La Divina Mimesis e Petrolio sono musei di rovine. Nel ’75 Pasolini dà alle stampe La Divina Mimesis come libro fatto “a strati” che assembla appunti antichi e recenti, sempre datati in calce, senza tentare neppure di organizzarli in un’organizzazione narrativa coerente, ma facendo tutto anzi di tutto per scardinarla, aggiungendo un excerptum critico e di una «poesia visiva» ribattezzata Iconografia ingiallita, composta di una sequenza di fotografie almeno all’apparenza caotiche nel loro ordinamento. Con Petrolio pensa da subito a un romanzo organizzato come edizione critica postuma, che gli consenta di alternare parti scritte in ossequio a una residua finitezza stilistica e parti puramente referenziali o addirittura “scalette”, da integrare con i documenti più diversi (articoli di giornali, discorsi di personaggi coinvolti nel libro, persino i nudi che nell’ottobre del ’75, poco prima di essere ucciso, aveva commissionato al giovane Dino Pedriali, per figurare nel corpo del romanzo poi apparso privo di immagini: sia nella princeps del ’92 che nella recente nuova edizione a cura di Maria Careri e Walter Siti, apparsa per il centenario da Garzanti). Di nuovo, un romanzo non finito. Ma, stavolta, costitutivamente interminabile. Su come Pasolini si sarebbe risolto a pubblicarlo si possono solo fare ipotesi ma la magmaticità, e un non-finito programmatico prima di diventare drammaticamente fattuale per l’assassinio dell’autore, erano previsti fin dall’inizio. Non per niente l’Appunto 1, Antefatti è costituito da due righe di puntini di sospensione, con una nota al piede: «Questo romanzo non comincia».

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1 Marco Antonio Bazzocchi, Alfabeto Pasolini, Carocci, Roma 2022, p. 137.

2 Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., Mondadori, Milano 1998, vol. I, pp. 695-698.

3 Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll., vol. II, Mondadori, Milano 2003, p. 1270. 

4 Pier Paolo Pasolini, Le Lettere, a cura di A. Giordano, N. Naldini, Garzanti, Milano 2021, pp. 530-531.

5 Ivi, p. 402. 

6 Pier Paolo Pasolini, Gli adorati toponimi, in I parlanti [1951]: Id., Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, con due saggi di W. Siti, 2 voll., vol. II, Mondadori, Milano 1998, pp. 165-167. D’ora in poi il riferimento a questa edizione verrà dato nel testo con l’indicazione RR.

7 Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., Mondadori, Milano 1998, p. 1331.

8 Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Mondadori, Milano 1999, p. 1080.