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Esporsi e contrapporsi. Pasolini, il corsaro
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Esporsi e contrapporsi. Pasolini, il corsaro
In questa puntata Andrea Cortellessa, critico letterario, professore di letteratura italiana contemporanea all'Università Roma Tre, ci guida a capire le modalità e le ragioni della tendenza alla polemica pubblica che Pasolini ha sempre avuto, del suo continuo suscitare controversie esponendosi volontariamente alle contestazioni.

Per comprendere la centralità di Pasolini nel panorama culturale dell’Italia del secondo Novecento non dobbiamo tanto valutare le singole opere, quanto cercare di mettere a fuoco la loro relazione continua con la vita privata dell’autore e con quella pubblica dell’Italia negli anni della sua grande trasformazione. Le opere di Pasolini, per essere intese correttamente, vanno lette come momenti distinti di un’unica performance al cui centro sta un autore che è riuscito a diventare, nello stesso tempo, personaggio pubblico scandaloso e coscienza critica di un Paese in crisi. Nel podcast Esporsi e contrapporsi Andrea Cortellessa, critico letterario, professore di letteratura italiana contemporanea all'Università Roma Tre, ci guida a capire le modalità e le ragioni della tendenza alla polemica pubblica che Pasolini ha sempre avuto, del suo continuo suscitare controversie esponendosi volontariamente alle contestazioni.

 

Andrea Cortellessa

«La poesia non s’impone più, si espone». Così, poco prima di abbandonarsi nelle acque della Senna nell’aprile del 1970, aveva lasciato scritto il più grande poeta della sua generazione, Paul Celan: che – tradotto da noi solo dopo la sua morte, nel ’76 – Pasolini non fece in tempo a leggere. La parola esposizione, ha scritto una grande poetessa di oggi, Antonella Anedda, può voler dire tante cose: «Esposti si chiamavano i bambini lasciati sulla ruota dei conventi | Esposta è la merce | Esposta la salma | Esposto è un termine giuridico | Esposta è la poesia per Paul Celan | Esposti al freddo | Esposti al rischio | Si espongono quadri e fotografie»1.

Tutte queste valenze della parola sono incarnate dalla figura di Pasolini. Poco prima della sua morte tragica, aveva scritto il suo amico Andrea Zanzotto (ricordando la non meno tragica sorte di Celan, appunto) che la poesia segna «uno stato di allarme» con «un sottinteso di minaccia: o forse di speranza?». La poesia – dice Zanzotto, che quell’infezione più d’ogni cosa temeva e desiderava – ci espone a un «contagio»: il quale si trasmette «tramite colui che scrive»2.

Esposto, proprio, s’intitola un abbozzo di componimento, che Pasolini rinunciò infine a includere nella sua penultima raccolta poetica, Trasumanar e organizzar3. In questo caso la parola allude nello specifico alla sua valenza di «termine giuridico» (come dice Anedda), nel linguaggio procedurale per il quale «esposto», appunto, viene definita una dichiarazione ufficiale resa davanti a testimoni; e questo linguaggio burocratico mima in effetti Pasolini nel componimento in questione, per affermare di aver «esposto» le sue idee a interlocutori – come gli studenti extraparlamentari o il P.C.I. – che concordi lo «relegano tra gli Infrequentabili», col suo «coraggio andato a male» e i suoi «mal tesi nervi» (allusione questa, tramite una citazione dantesca, alla propria omosessualità). Alla fine di questa autoaccusa “ufficiale”, il poeta si sottopone ai «provvedimenti» del «Giudice del Mondo». 

Sin dall’inizio un corpo esposto è stato, sempre, quello di Pasolini: dalla prima epifania di Narciso, nelle aurorali Poesie a Casarsa, agli ancora oggi problematici nudi da lui commissionati al giovane fotografo Dino Pedriali nell’ottobre del ’75, poche settimane prima della morte, nel suo studio alla cosiddetta Torre di Chia: immagini che, secondo molti interpreti e secondo lo stesso fotografo che le aveva realizzate, Pasolini pensava di inserire nel corpo del suo magmatico Petrolio, non-romanzo o iper-romanzo pubblicato nel 1992, invece, postumo e privo di immagini (come è anche, per motivi contrattuali, l’ultima edizione uscita in quest’anno centenario, a cura di Maria Careri e Walter Siti). Con la fotografia sino ad allora – ha ricostruito Corinne Pontillo4 – aveva avuto un rapporto controverso: oggetto com’era stato, lo vedremo, di una vera e propria persecuzione a mezzo stampa che non s’era fatta scrupoli di impiegare, ovviamente senza autorizzazione, la sua immagine fotografica. Nelle Ceneri di Gramsci per esempio aveva avuto parole ambigue nei confronti del «lampo di magnesio»: presentando sé stesso come indiscreto voyeur, per non dire proprio “paparazzo”, che «getta il flash su file dirotte / di gioventù» disperse nella «città nemica» (Poesie 2003, I, 852).

Esposizioni, proprio, s’intitola un saggio di Marco Antonio Bazzocchi che legge tutta l’ultima stagione artistica dell’autore nella chiave di un’ostensione del corpo glorioso e tormentato del performer, che al suo pubblico morboso si dà in pasto persino nudo: appunto nelle foto di Pedriali alla Torre di Chia, delle quali è il soggetto stesso – come ha testimoniato il fotografo – a pianificare l’effetto voyeuristico e, come tante volte in precedenza, lo “scandalo” che puntualmente, ancora oggi, quelle immagini suscitano5. Ma già l’introduzione di Walter Siti al primo dei «Meridiani», quello dei Romanzi e racconti (ora riportata nel suo libro Quindici riprese), aveva per titolo Narrare, descrivere, esporsi6.

Quello della propria rappresentazione è stato sempre, per Pasolini, un nodo centrale: tra un massimo di provocazione esibizionistica e uno spasmodico desiderio di privacy, destinata a essere sempre violata. Ogni sua immagine, aveva capito per tempo, poteva essere usata contro di lui; e lo scandalo, infatti, lo perseguita sin dalla giovinezza. Lo riassume, capitolo per capitolo, il libro mastro delle accuse, Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, esce a cura di Laura Betti nel 1977 ed è un libro che ancora oggi fa impressione: per l’assiduità di quella persecuzione non meno che per l’assurdità di tanti dei suoi capitoli7. L’autorità lo opprime da quando è poco più di un ragazzo, sin dal processo per i “fatti di Ramuscello”, con l’accusa di «atti osceni» per una sera di effusioni fra i prati nell’estate del ’49, che va dal ’50 fino all’assoluzione nel ’52 ma resterà sempre un’ombra nei suoi rapporti col Partito Comunista.

Dalla frontiera friulana alle periferie romane, è tutta una sequenza di attacchi ad personam e critiche pretestuose, ai quali Pasolini il più delle volte non si sottrae, preferendo assumere su di sé il ruolo del testimone, se non direttamente quello del martire: con la stessa algolagnia sadomasochistica che nella sua opera, sin dalle prime poesie in friulano, così spesso si traduce in fantasticherie morbose sulla propria stessa morte. Alfonso Berardinelli ha sottolineato come la mossa retorica più congeniale all’ultimo Pasolini fosse quella di presentarsi come perseguitato, processato, vittima sacrificale: «attirarsi accuse e difendersi dalle accuse, giustificarsi di fronte alla legge, mettere in discussione i fondamenti della legge positiva […]. La condizione di imputato era ormai forse il movente più forte della sua opera»8. Eloquenti dunque due delle maschere proiettive da lui predilette, quelle delle vittime predestinate Socrate e Cristo.

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Nel 1955 il successo del romanzo Ragazzi di vita segna per Pasolini, improvviso e provvidenziale dopo anni di vera e propria miseria, l’approdo alla fama pubblica. È anche il momento in cui i media di una nuova e spregiudicata industria dell’informazione, in particolare i rotocalchi che basano la loro comunicazione su foto di sensazionale impatto emotivo riprodotte in formato gigante, iniziano a cercare personaggi larger than life, come si dice, da seguire con ammirazione o sommariamente condannare per le vie più brevi. E a molte di queste testate Pasolini, omosessuale dichiarato e instancabile polemista, appare perfetto come “testa di turco” da additare al pubblico ludibrio. Se già la sua letteratura aveva fatto sensazione, il suo cinema lo fa diventare definitivamente, per i conservatori, un corruttore dei pubblici costumi. Alle prime dei suoi film si presentano regolarmente gruppi di giovani contestatori di destra che disturbano, inveiscono, aggrediscono. Nel 1960, per dimostrare la sua pericolosità di “cattivo maestro” se non proprio delinquente, i giornali di destra non esitano a sbattere in prima pagina una foto innocente presa sul set del film di Carlo Lizzani Il gobbo, nel quale Pasolini s’è divertito a fare l’attore, e in cui imbraccia un mitra di scena. (La didascalia, non priva d’ironia, suona «Pasolini si difende».) 

Dalle polemiche, comunque, non si tira mai indietro. Gli epigrammi dal titolo dostoevskiano Umiliato e offeso (poi inclusi nella Religione del mio tempo) comprendono per esempio una famigerata intemerata a Pio XII, A un Papa (Poesie 2003, I, 1008-9), che alla rivista «Officina», da lui animata coi vecchi amici di Bologna, nel ’59 costa la chiusura da parte dell’editore Bompiani. A illustrare in forma d’emblema le vite parallele del Sommo Pontefice, appena spirato nel suo letto principesco, e di un vecchio «ragazzaccio plebeo» travolto da un tram mentre dormiva all’addiaccio, vengono accostate le chiese romane di San Pietro e San Paolo, che compongono poi il nome doppio del poeta (il quale emblematicamente sceglierà la sua ultima dimora terrena, nel quartiere moderno dell’Eur, nei pressi della chiesa che i nomi di quei due santi accomuna, quella di San Pietro e Paolo appunto). San Pietro naturalmente è la sede della Chiesa, il centro del potere non solo spirituale del Pontefice; mentre nei pressi di San Paolo si trovano i Mercati Generali dove aveva trovato rifugio il barbone. A Roma i due luoghi sono ben distanti fra loro, ma la sovrimpressione dei versi finge che la morte del «povero Zucchetto» si sia consumata all’ombra del Vaticano incurante: «Ci sono posti infami, dove madri e bambini / vivono in una polvere antica, in un fango d’altre epoche» (in effetti non lontano dalla «bella cupola di San Pietro» c’era allora «uno di questi posti, il Gelsomino… / Un monte tagliato a metà da una cava, e sotto, / tra una marana e una fila di nuovi palazzi, / un mucchio di misere costruzioni, non case ma porcili». Nei Nuovi epigrammi segue poi l’attacco ai nobili “neri” del Circolo della Caccia, insorti contro la sua invettiva: «non siete mai esistiti, vecchi pecoroni papalini: / ora un po’ esistete, perché un po’ esiste Pasolini» (Poesie 2003, I, 1025). 

Per tutti gli anni Sessanta, in tribunale, Pasolini si presenta in abiti corretti e “borghesi”, mentre il suo look diverrà decisamente più casual, negli anni seguenti, nelle tante apparizioni televisive dedicate ai temi più diversi. «Il Borghese» e altre testate di destra lo deridono anche solo per l'aspetto esteriore; hanno specialmente in odio il dettaglio degli occhiali da sole, che proprio per questo lui elegge a capo principale di ogni suo look. Perseguitato dai media, già prima della performance con Pedriali Pasolini capisce che la sua icona (simile a quelle di Andy Warhol, sulle quali rifletterà in uno dei suoi ultimi scritti), in questa sua esposizione da «star», poteva anche tornare a suo vantaggio. Per esempio nella popolare rubrica sulla rivista «Vie nuove», sino al ’61, il titolo Dialoghi con Pasolini era scritto in testa seguito da un suo piccolo ritratto fotografico, mentre dall’anno seguente la grafica del giornale gioca con la notorietà del personaggio: e la scritta «Dialoghi con» è seguita direttamente dalla foto (mentre «PASOLINI», come una firma gigantografata, si legge in fondo alla pagina).

La direttrice di «Vie nuove», Maria Antonietta Macciocchi, aveva invitato Pasolini a tenere questa rubrica nel giugno del ’60, e il poeta la proseguirà sino al settembre del ’659. Qui ci interessa anche perché Pasolini vi comincia a sperimentare una delle “maniere” alla quale in seguito maggiormente dovrà la sua fama pubblica. Il gioco di botte e risposte coi lettori lo stimola e lo diverte, ma gli suggerisce anche la formazione “reattiva” che avranno i ben più celebri e scandalosi articoli che di questa stagione riprendono spesso, se non i toni, i temi: e che dal gennaio del ’73, a sorpresa, l’anti-borghese per eccellenza Pasolini pubblicherà (spesso in prima pagina) sulle colonne dell’organo per eccellenza della borghesia italiana, il «Corriere della Sera» diretto da Piero Ottone. Sono i testi, oggi forse i suoi più celebrati in assoluto, che verranno raccolti nel ’75 in Scritti corsari e, l’anno dopo, nelle appena postume Lettere luterane.

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La loro caratteristica più evidente, infatti, è appunto quella di reagire: non solo ai casi più variopinti della cronaca non solo politica, come nella tradizione dell’articolo di “costume e società” che da un pezzo le testate giornalistiche avevano preso a commissionare agli scrittori, ma anche alle opinioni altrui: che Pasolini ha l’abilità infallibile di provocare, non solo con l’oltranza delle proprie, ma più direttamente rivolgendosi spesso ad personam a quelli che considera i suoi “nemici” impostando diversi dei suoi pezzi, in effetti, come “repliche” alle obiezioni che gli vengono rivolte. La sua funziona dunque come una vera e propria «guerriglia semiotica» (così di lì a poco definirà Umberto Eco quella dei movimenti extraparlamentari, ai quali Pasolini era legato con la sua solita ambivalenza)10. In modo diverso da come aveva concepito la sua scrittura nel decennio precedente, anche questi in fondo sono testi «da farsi»: nel senso che si appellano ogni volta alla cooperazione del lettore (a quella che in precedenza aveva chiamato la sua «integrazione figurale»). Antonio Tricomi li ha definiti «intertesti»: «performances linguistiche dal valore anzitutto pratico, che cioè chiedevano ai destinatari di essere tradotte in azioni tese a modificare la società»11

Questo complesso gioco di spinte e controspinte, reazioni e contro-reazioni, andrebbe ricostruito ogni volta nel dettaglio per capire meglio certe formulazioni “corsare” e “luterane” che – lette invece autonomamente, come facciamo di consueto, nell’ambito delle raccolte in cui sono state ordinate dall’autore – anche più della sua media ci possono apparire contraddittorie se non, certe volte, proprio aberranti (e Pasolini in effetti, nella nota che accompagna gli Scritti corsari, ci mette sull’avviso scrivendo che «la ricostruzione di questo libro è affidata al lettore»). Un altro aspetto che si tende a sottovalutare (se non a obliterare completamente) è la genesi squisitamente personale di tante sue ossessioni – come quella per i capelli corti dei giovani che lo attraggono – da Pasolini presentate invece, per convenienza retorica, come postulati dal valore universale (per esempio quando scrive nella sua ultima raccolta poetica, La nuova gioventù: «Se duciu i zòvins / comunis’c a si tajàssin / i ciavièj, ghi colarès / la mascara ai zòvins fassis’c», «Se tutti i giovani comunisti si tagliassero i capelli, cadrebbe la maschera ai giovani fascisti»). 

Eppure, specie nelle Lettere luterane, anche in questo caso Pasolini avverte il suo lettore di considerare le questioni di cui si occupa a partire «da una situazione esistenziale», implicandovi «una tragedia personale», chiamando a testimone «il suo modo di esistenza» e «la sua esperienza privata, quotidiana, esistenziale» (contrapposta «all’offensiva astrattezza e approssimazione dei giornalisti e dei politici che non vivono queste cose»). La critica recente, da Bazzocchi a Belpoliti, ha messo in luce diversi di questi cortocircuiti, ma nella maggior parte dei suoi lettori resta imperturbato, invece, il mito di un Pasolini sempre in possesso di un’infallibile capacità d’osservazione clinica delle dinamiche sociali e antropologiche del suo tempo. Quando invece nelle sue polemiche “corsare”, viceversa, lui spesso procedeva spinto da più o meno confessabili questioni private. Le quali certo conferivano un accento straordinariamente passionale e coinvolgente alle sue parole: le quali tuttavia non dovremmo prendere in carico, in positivo o in negativo, senza conoscerne i moventi più o meno reconditi.

Prendiamo per esempio la sua polemica in assoluto più scottante e ancor oggi “divisiva”, quella dell’articolo che il «Corriere della Sera», il 19 gennaio 1975, titola Sono contro l’aborto12. Una «legalizzazione dell’aborto», dichiara Pasolini, equivale a «una legalizzazione dell’omicidio». Al di là delle fantasie vagamente psicoanalitiche sul fluttuante mondo pre-natale del quale medianicamente il poeta afferma di serbare memoria, però, il velen dell’argomento al quale lui tiene davvero è quello per cui l’interruzione di gravidanza, se definitivamente approvata (come faranno la legge 194, nel ’78, e il referendum popolare che ne impedirà l’abrogazione tre anni dopo), «renderebbe ancora più facile il coito – l’accoppiamento eterosessuale – a cui non ci sarebbero più praticamente ostacoli»: una libertà sessuale voluta secondo lui dal «potere dei consumi», cioè quello che definisce il «nuovo fascismo»; e che renderà il «piccolo patto criminale» della coppia eterosessuale una «condizione parossistica». Non è l’unica pointe questa, negli Scritti corsari, di quella che possiamo definire l’eterofobia di Pasolini: che incontrava (e incontra) lo strumentale consenso delle frange più conservatrici del cattolicesimo italiano, ma rispondeva in effetti a un suo trauma squisitamente privato, quello di una specifica coppia eterosessuale il cui formarsi lo aveva gettato nel più disperato sconforto d’amore (testimoniato fra l’altro da un’intera raccolta di versi, L’hobby del sonetto, scritta fra il ’71 e il ’73, e rimasta inedita se non nei «Meridiani» che raccolgono la sua opera poetica)13: quella tra Ninetto Davoli, il giovane borgataro d’origine calabrese suo compagno sin dal ’63, e la fidanzata con la quale lui aveva deciso di sposarsi; all’amico Paolo Volponi, nell’estate del ’71, scrive Pasolini di aver «perso il senso della vita» e di essere «incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia»14; e la vicenda getta anche un’ombra su una delle più grandi amicizie di Pasolini, quella con Elsa Morante.

Tutto ciò nulla toglie, però, all’esemplarità tanto letteraria che civile della produzione “corsara” e “luterana” di Pasolini. Carla Benedetti ha richiamato al riguardo gli studi di Michel Foucault su una figura tipica della società dell’antica Grecia, quella del parresiastes: colui cioè che si espone con la propria parola pubblica su tutte le questioni che a quella società interessano (parrhesia vale «dire tutto»: è un composto di pan e rehma), senza riguardo alla sproporzione di forze in campo e in sprezzo anche del pericolo personale che tali sue prese di posizione possano in certi casi comportare15. Solo che questa postura, che assomiglia davvero da vicino a quella impersonata da Pasolini nei suoi ultimi anni di vita, di norma dai suoi lettori (non esclusa, spesso, la stessa Benedetti) viene presa alla lettera – presupponendo cioè che chi questa parola pronunciava in nome della «verità» tale verità davvero possedesse, e fosse in grado di rivelare. Mentre Foucault, discepolo di Nietzsche, parte dal presupposto contrario: «che non vi siano fatti oggettivi a cui sforzarsi di adeguare le interpretazioni e i discorsi, ma interpretazioni e discorsi che costituiscono i loro fatti corrispondenti». Quello che Foucault chiama «effetto di verità» – al modo in cui in precedenza Roland Barthes aveva chiamato «effetti di realtà» quelli prodotti delle tradizioni “realistiche” dell’arte e della letteratura – è un effetto retorico, «non è il campo dell’universale ma il campo di un conflitto»16.

Quella che Pasolini mette in campo non è insomma affatto “la verità”, bensì la ricerca della verità: ambizione forse gnoseologicamente inferiore ma che dal punto di vista etico, viceversa, risulta ancora più impegnativa. È sintomatica, in termini retorici, la costruzione del più celebre degli “attacchi” degli Scritti corsari17 (tante volte ripetuto, più o meno a proposito, da intellettuali engagés che non mancano mai di richiamarsi al suo precedente): quando il 14 novembre 1974 Pasolini ripete, in martellante anafora, «Io so» – riferendosi ai nomi dei «responsabili» dei fatti di sangue che, a partire dalla strage di Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969, hanno generato la cosiddetta «strategia della tensione». «Io so», ripete Pasolini tredici volte in due pagine, per infine però aggiungere: «Ma non ho le prove». E infatti quei nomi, alla fine, non li pronuncia. Eppure questo suo folgorante pezzo di bravura non perde, per ciò, di valore: perché, come precisa lui stesso, proprio in quanto resta un’allusione inutilizzabile in sede processuale nei confronti di responsabilità individuali, la sua denuncia s’intende rivolta «contro l’intera classe politica italiana». Non ha dunque alcun valore giudiziario ma ne ha uno non meno che esemplare, invece, in termini politici e, si ripete, etici.

È infatti la massima espressione del valore di contrapposizione che Pasolini in diverse occasioni attribuisce al ruolo dell’«intellettuale» (come si qualifica in questo suo intervento), ma anche a quello dell’«artista»: «un autore», ha detto una volta, «quando è disinteressato e appassionato, è sempre una contestazione vivente. Appena apre bocca contesta qualcosa al conformismo, a ciò che è ufficiale, a ciò che è statale, a ciò che è nazionale, a ciò che insomma va bene per tutti. Quindi non appena apre bocca un artista è per forza impegnato, perché il suo aprire bocca è scandaloso sempre»18.

Certo questo atteggiamento, come ha scritto Siti, si può ricondurre alla sua pulsione sadomasochistica: «come spesso si ha l’impressione che i suoi film siano un pretesto per poter fare i sopralluoghi», così le ricerche svolte in prima persona per Petrolio paiono «un pretesto per mettersi personalmente in pericolo […]. Al narrare, e perfino al descrivere, si è ormai sostituito l’esporsi». Questo sarebbe il senso più profondo delle «domande incaute e rischiose» che Pasolini non smetteva di fare «ai ragazzi che incontrava la notte»19. Gli saranno in effetti fatali, in un modo o nell’altro, quelle sue frequentazioni coi «ragazzi di vita» attratti dalla sua macchina sportiva nei suoi febbrili détours, nei suoi «sopralluoghi» in giro per la città.

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Pare confermare questa diagnosi una metafora impressionante che troviamo impiegata in uno degli straordinari saggi raccolti in Empirismo eretico, Il cinema impopolare del ’70. Contestando per l’ennesima volta le pratiche delle avanguardie, dice Pasolini che esse non si pongono «sulla linea del fuoco: ossia sul fronte delle trasgressioni linguistiche» ma per eccesso di slancio, per così dire, «superano la linea del fuoco, e si trovano dall’altra parte, in territorio nemico». Solo che quello, paradossalmente, è un luogo franco: «là dove tutto è diventato trasgressione, non c’è più pericolo», mentre «il momento della lotta, quello in cui si muore, è al fronte». È qui invece che intende collocarsi lui, considerandosi uno di quei «registi-martiri» che «si trovano sempre, stilisticamente, sulla linea del fuoco»: «a furia di esporsi» (il corsivo, si noti, è di Pasolini) «essi finiscono con l’ottenere ciò che aggressivamente vogliono: essere feriti e uccisi con le armi che essi stessi offrono al nemico»20.

Eppure questo paradossale «fine pratico della sua poesia», che si rivelerà infine autodistruttivo, se forse ha davvero guidato più di altri il comportamento di Pasolini, non possiamo considerarlo il nostro. A servirci davvero, oggi, è quello che magari lui considerava, allora, un suo effetto collaterale. In un’altra celebre intervista, quella fattagli in televisione da Enzo Biagi nel ’71, ho sempre trovato esemplare questo scambio di battute: con la sua consueta vis provocatoria, Pasolini dichiara che «la televisione è un medium di massa» e dunque «non può che alienarci». Con la sua altrettanto brevettata pacatezza, ma non senza un certo orgoglio professionale, gli obietta il giornalista che invece in quel momento stanno «discutendo tutti con grande libertà, senza alcuna inibizione». Pasolini ribatte a muso duro: «No, non è vero», e con puntiglio Biagi insiste: «Sì, è vero. Lei può dire tutto quello che vuole». Spiega allora Pasolini: «In realtà non posso dire tutto. E poi, oggettivamente, di fronte all’ingenuità o alla sprovvedutezza di certi spettatori, io stesso non vorrei dire certe cose»21. Quello che intende dire Pasolini è che il medium in sé – nella fattispecie, dal suo punto di vista, quello televisivo – non può sostenere la verità (cioè, s’è detto, la sua verità). La sua critica non appare tanto diversa, allora, da quella che i suoi «nemici» della Neoavanguardia facevano alle strutture linguistiche della letteratura e dell’arte, e che per questa limitazione Pasolini considerava insufficiente, se non ipocrita. E invece, sebbene svolta dall’interno della macchina mediatica da lui contestata, o magari proprio per questo in effetti, questa sua critica radicale acquista un valore performativo: si rivolge, cioè, al fuori del linguaggio impiegato in quella circostanza. Lo abbia voluto il caso o meno, è un fatto che queste parole di Pasolini vennero censurate dalla televisione italiana.

All’ultima esposizione, quella definitiva, Pasolini non riuscirà a sottrarsi; né potrà risolverla, come tante volte gli era riuscito in passato, a proprio vantaggio. Sono inguardabili le foto a colori fatte dalla Polizia Scientifica, all’Idroscalo di Ostia, la mattina del 2 novembre 1975, al suo capo sconciato, al suo «corpo fracassao» (come a caldo grida il suo sgomento un anziano e grandissimo poeta suo amico, Biagio Marin); eppure talora, malgrado tutto, queste immagini si sono viste (le pubblicò in parte, allora, «L’Espresso»; e di recente sono state esposte, al Wegil di Roma nel 2019, in una mostra curata da Giuseppe Garrera). In un paio di quelle scattate invece in bianco e nero da Vittorio La Verde, allo stesso cadavere pietosamente coperto da un telo, il taglio dell’inquadratura non può non ricordare quello della scena di Mamma Roma col corpo morto di Ettore nella posizione codificata dal Cristo morto di Mantegna.

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1 Antonella Anedda, prefazione a Marco Giovenale, La casa esposta, Le Lettere, Firenze 2007, p. 7.

2 Andrea Zanzotto, Poesia? [1976], in Id., Le Poesie e Prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, saggi introduttivi di Stefano Agosti e Fernando Bandini, Mondadori, Milano 1999. p. 1201.

3 Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll., vol. II, Mondadori, Milano 2003, p. 310-11. D’ora in poi il riferimento a questa edizione verrà dato nel testo con l’indicazione Poesie 2003.

4 Cfr. Corinne Pontillo, Di luce e morte. Pasolini e la fotografia, Duetredue, Siracusa 2015.

5 Cfr. Marco Antonio Bazzocchi, Esposizioni. Pasolini, Foucault e l’esercizio della verità, il Mulino, Bologna 2017, pp. 137-63.

6 Cfr. Walter Siti, Narrare, descrivere, esporsi [1998], in Id., Quindici riprese. Cinquant’anni di studi su Pasolini, Rizzoli, Milano 2022, cit.

7 Cfr. Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, a cura di Laura Betti, Garzanti, Milano 1977.

8 Cfr. Alfonso Berardinelli, Pasolini, stile e verità, in Id., Tra il libro e la vita. Situazioni della letteratura contemporanea, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 149-69. 

9 I pezzi sono stati raccolti in parte in Le belle bandiere, a cura di Gian Carlo Ferretti, Editori Riuniti, Roma 1977. In forma più ampia sono usciti con il titolo I dialoghi, a cura di Giovanni Falaschi, Editori Riuniti, Roma 1992.

10 Cfr. Umberto Eco, Sette anni di desiderio. Cronache 1977-1983, Bompiani, Milano 1983.

11 Antonio Tricomi, Sull’opera mancata di Pasolini. Un autore irrisolto e il suo laboratorio, Carocci, Roma 2005.

12 19 gennaio 1975. Il coito, l’aborto, l’amore, la falsa tolleranza del potere, il conformismo dei progressisti [1975], in Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975; ora in Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., vol. I, Mondadori, Milano 1999, pp. 372-9.

13 Cfr. M.A. Bazzocchi, Esposizioni, cit., pp. 86-90.

14 Pasolini a Paolo Volponi, agosto 1971, in Pier Paolo Pasolini, Lettere. 1955-1975, a cura di Nico Naldini, Einaudi, Torino 1988, p. 707 (la stessa lettera, ma con queste righe omesse, è uscita anche in Id., Le Lettere, a cura di A. Giordano, N. Naldini, Garzanti, Milano 2021, p. 1423). Un’altra lettera senza data, scritta da Pasolini ma non inviata alla fidanzata di Ninetto, Patrizia, è stata pubblicata nelle Note e notizie sui testi relative alla raccolta inedita L’hobby del sonetto (1971-73): Poesie 2003, II, pp. 1743-5.

15 Cfr. Carla Benedetti, Discorsi di verità, in Ead., Il tradimento dei critici, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 131-4. Ma si veda ora M.A. Bazzocchi, Esposizioni, cit.

16 Ivi, p. 116. Il riferimento è a Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica [1983], Donzelli, Roma 1996.

17 14 novembre 1974. Il romanzo delle stragi [1975], ivi, 362-7.

18 Intervista video anni Sessanta montata da Andrea Salerno nel suo Via Pasolini (2005): https://www.youtube.com/watch?v=vST4cNhvX9Y, 11’45”.

19 Walter Siti, Narrare, descrivere, esporsi [1998], in Id., Quindici riprese, cit., p. 199.

20 Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., vol. I, Mondadori, Milano 1999. p. 1609.

21 Pier Paolo Pasolini, … ma io produco poesia, una merce inconsumabile, in Id., Interviste corsare. Sulla politica e sulla vita 1955-1975, a cura di Michele Gulinucci, Liberal Atlantide Editoriale, Roma 1995, p. 179. Si tratta di un estratto dall’incontro dal titolo III B facciamo l’appello, organizzato cogli ex-compagni del Liceo Galvani di Bologna e programmato per andare in onda sul Canale nazionale della Rai il 27 luglio 1971, ma cancellato per la denuncia a