In quell' “opera globale” che è nel suo complesso la produzione pasoliniana trova posto anche il teatro: una produzione drammaturgica coltivata fin dall’adolescenza, nutrita negli anni friulani e poi sbocciata con la creazione delle sei tragedie iniziate nel 1966. L’interesse di Pasolini per il teatro comprende anche una riflessione teorica, il Manifesto per un nuovo teatro del 1968, dove è delineata l’idea di un nuovo “teatro di parola”, come lo definisce l’autore, che si oppone sia al teatro tradizionale sia al teatro d’avanguardia e nel quale la messinscena scompare quasi totalmente.
Insieme al giornalista e scrittore Stefano Casi, autore di una monografia su Pasolini e il teatro, esploriamo le specificità della sua opera teatrale, la sua teoria, la complessità degli intrecci fra il suo teatro e il suo cinema, le intersezioni con altri autori.
Stefano Casi
Il 27 novembre 1968 debutta a Torino lo spettacolo Orgia, scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini. Un evento quasi inaspettato. Pasolini è conosciuto come poeta, narratore, cineasta, saggista, polemista. Proprio in quei mesi è al centro dell’attenzione pubblica per aver dedicato una poesia agli studenti universitari contestatori prendendo provocatoriamente le difese dei poliziotti, e anche per il suo ultimo film Teorema, presentato da poco alla Mostra del Cinema di Venezia, premiato dai critici cattolici e al tempo stesso sequestrato dal tribunale per oscenità. Perché mai Pasolini aveva deciso di fare uno spettacolo teatrale? Cosa c’entrava Pasolini con il teatro? Le reazioni furono spietate: prima l’ironia, poi le critiche di incompetenza, infine il silenzio. Orgia chiuse i battenti dopo poche repliche in poche piccole città, e da quel momento Pasolini nelle sue interviste insistette nel dire che il teatro non lo aveva mai interessato, confermando l’idea di un Pasolini lontano da quel mondo.
E invece non era vero. Perché quella di Pasolini per il teatro è sempre stata una passione intensa, fin da ragazzo, quando a soli 16 anni, nel 1938, scrisse la sua prima opera teatrale, con la quale vinse un concorso giovanile. Il dramma s’intitola La sua gloria e contiene già tutti gli elementi portanti dell’opera futura di Pasolini: l’autobiografismo con il quale si mette al centro dell’azione, la riflessione sul rapporto tra poesia e vita, l’amore per la madre, l’impegno civile, la diversità, e perfino la ricerca plurilinguistica.
Era una vera e propria vocazione teatrale, che durante il periodo universitario lo portò ad approfondire il teatro, a creare compagnie amatoriali, sia con i suoi amici studenti nella città natale Bologna, sia in Friuli, nel paese materno di Casarsa, dove si recava durante le vacanze e dove rimase per sfuggire alla guerra fino a tutti gli anni Quaranta. Proprio a Casarsa ebbe l’occasione di approfondire la scrittura teatrale, sia in italiano sia in friulano, e soprattutto la pratica, dirigendo vari spettacoli, tra cui un’opera teatrale per bambini dal titolo I fanciulli e gli elfi, in cui lui recitava insieme ai ragazzi del luogo. In Friuli il teatro rappresentava, insieme alla poesia, uno degli strumenti principali per la coesione della piccola comunità: era come se il paese di Casarsa diventasse agli occhi del regista una piccola Atene, in cui il teatro è luogo di affermazione della città. Ne è un esempio il testo teatrale più importante di quel periodo, scritto quando aveva 22 anni, I Turcs tal Friúl, che in friulano rievoca un fatto storico documentato: il miracoloso salvataggio proprio del paese di Casarsa durante l’invasione dei turchi nel 1499, narrato da Pasolini proprio mentre la regione era in quei mesi sotto occupazione dei tedeschi negli ultimi momenti della seconda guerra mondiale. Di quel testo portò in scena solo un intenso monologo, una preghiera che inizia così: Cristo, pietà del nostro paese. Ecco l’inizio del monologo, recitato in friulano.
Cristo, pietà del nostro paese. Non per farci più ricchi di quel che siamo. Non per darci pioggia. Non per darci sole. Patire caldo e freddo e tutte le tempeste del cielo, è il nostro destino. Lo sappiamo. Quante volte in questa nostra Chiesetta di Santa Croce abbiamo cantato le litanie, perché Tu avessi pietà della nostra terra! Oggi ci accorgiamo di aver pregato per niente: oggi ci accorgiamo che Tu sei troppo più in alto della nostra pioggia e del nostro sole e dei nostri affanni.
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Arrivato a Roma nel 1950 Pasolini sembra dimenticare il teatro: ad attrarlo sono molti altri stimoli, l’ambiente letterario, il cinema, la scoperta delle periferie... Il teatro rimane sottotraccia, almeno fino a quando il più importante attore italiano, Vittorio Gassman, non gli chiede di tradurre la trilogia di Eschilo. Per Pasolini è una svolta: tradurre le tragedie greche lo riporta a un’idea di teatro che collega l’impegno civile con la vertigine di storie scandalose. E al tempo stesso gli permette di sperimentare una lingua che unisce la poesia scritta con l’oralità. L’Orestiade tradotta da Pasolini nel 1960 rimane una delle traduzioni più moderne di Eschilo. Pasolini stesso ne spiega il metodo in un’intervista.
Ho cercato di ridare il testo greco non attraverso una traduzione letterale che è impossibile perché certi significati delle parole cambiano in maniera irrecuperabile. E non ho cercato nemmeno una mediazione classicistica. Ho cercato solo di fare una traduzione un po’, come si dice, per analogia, un po’ come ho ricostruito per esempio poi nel fare il Vangelo l’ambiente: non l’ho ricostruito archeologicamente, filologicamente, ma l’ho ricostruito per analogia.
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Il teatro si accorge di Pasolini e comincia a corteggiarlo. Anche attraverso amicizie profonde come quella con la cantante Laura Betti, che crea i suoi show con canzoni scritte appositamente per lei dai grandi scrittori dell’epoca. Laura Betti inizia a pensare anche alla recitazione, ed è lei a spingere Pasolini verso orizzonti inaspettati come il cabaret, portandolo a scrivere un testo comico-satirico dal titolo Italie magique per il suo nuovo spettacolo. Così come è una giovane compagnia teatrale a convincere Pasolini a concedere un suo vecchio testo degli anni friulani, rimasto a lungo nel cassetto e ora risistemato con il nuovo titolo Nel ’46!, in cui ritornano in maniera ossessiva e visionaria i temi dell’autobiografismo, della diversità, dell’erotismo, dell’impegno civile e politico, in una storia in cui si intrecciano liberamente sogni e incubi.
Nel frattempo in Italia la crisi del teatro e l’avanzare della neoavanguardia creano l’ambiente ideale per Pasolini per puntare decisamente al teatro, con la speranza di diventare protagonista anche qui, dopo esserlo stato nella poesia e nel cinema. A metà degli anni Sessanta, infatti, il teatro sembra rappresentare il luogo più adatto per accogliere il dibattito intellettuale su società e politica. E Pasolini decide di entrarci spiazzando ogni aspettativa. Cioè scrivendo tutte insieme 6 tragedie in versi, come spiega in un’intervista televisiva.
In un mese ho buttato giù le prime stesure dei primi, ma da allora, cioè da due anni fa a oggi, a varie riprese... Ecco Orgia, che è la prima che ho scritto, Pilade, Affabulazione, Calderón, Bestia da stile, eccetera. E poi un’altra decina di progetti. Intenderei rappresentare questi drammi facendomi la regia io stesso. Cosa che non è molto particolare come idea. È successo altre volte che dei registi hanno fatto la regia dei propri drammi.
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Quella di una tragedia in versi è una scelta in apparenza esclusivamente letteraria e legata al teatro greco, anche un po’ arretrata considerando che il nuovo teatro italiano di quegli anni stava scoprendo la gestualità, la fisicità, l’immagine, e stava ripudiando la parola. E invece Pasolini punta sulla centralità della parola, anzi della poesia, allineandosi in questo alla grande tradizione europea del moderno teatro di poesia che da Yeats si era sviluppata con Eliot, Claudel fino a Peter Weiss e Heiner Müller. Pasolini guarda alla Grecia pensando a un teatro come dibattito civile e dialogo intellettuale, ma il suo orizzonte stilistico è l’America, il verso ispirato di Ezra Pound e quello libero e veemente di Allen Ginsberg. Dai canti dei neri d’America prende l’idea del ‘corpo gettato nella lotta’, facendo scoppiare le sue parole teatrali di corporeità, di fisicità, di sesso e sangue. E all’America, dove si reca in viaggio proprio nei mesi in cui scrive le sue tragedie, guarda nella speranza di portare in scena le sue opere, perché per lui in Italia nessuno è adatto a farlo: in un’Italia abituata alla prosa di Pirandello o al verso declamatorio di D’Annunzio, non c’erano attori capaci di recitare i suoi versi.
Pasolini azzarda qualcosa di più: una teoria che scrive in un Manifesto per un nuovo teatro, alternando riflessioni sulla lingua teatrale, appunti di storia del teatro, proposte di innovazione, e provocazioni divertite. Fino a un’interpretazione del teatro come rito, in cui ridefinisce varie tipologie di ritualità nei secoli, fino a lanciare una sua proposta, per restituire al teatro la dimensione del rito e al tempo stesso un nuovo valore di dialogo culturale, come spiega in questa intervista:
Mentre praticamente nei tempi antichissimi il teatro era un teatro che era praticamente un rito religioso – e certo teatro moderno lo rievoca, per esempio il Living Theatre rievoca il teatro primitivo... È pian piano diventato soltanto un rito sociale, cioè la ricca borghesia va nel teatro con i suoi visoni, con i suoi vestiti da sera, a celebrare un rito, in cui celebra poi sé stessa. Ora, né rito religioso, né rito sociale: vorrei che fosse un rito culturale.
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Nel Manifesto ribadisce la centralità della parola come strumento del dialogo tra attori e spettatori: e proprio questi due poli del teatro raccolgono maggiormente la sua attenzione. Pasolini reclama un attore intellettuale, svincolato dagli accademismi e capace di comprendere il testo e restituirlo con chiarezza. E d’altra parte reclama anche uno spettatore intellettuale: lui che odiava tanto la borghesia cerca nel teatro spettatori borghesi ma illuminati, còlti e capaci di comprendere la complessità e difficoltà dei suoi testi. Si tratta di una teoria quasi illuministica e politica, che però sembra essere superata dalle sei tragedie, dove le riflessioni sulla borghesia, sul potere, sulla storia e sulla società, passano attraverso la vertigine di storie oscene e scandalose. Dunque, Pasolini sembra voler colpire lo spettatore solo alla testa, ma in realtà lo trascina nel gorgo di visioni inquietanti, piene di sogni, fantasmi, violenza ed erotismo, riuscendo a conciliare, proprio come nella tragedia greca, l’oltraggio delle azioni con la lucidità dei loro insegnamenti. Ecco allora cos’è il teatro per Pasolini: è lo strumento dell’intellettuale per leggere la società e sollecitare un pensiero critico, e al tempo stesso lo spazio perturbante delle proprie ossessioni nelle quali risucchiare quelle degli spettatori.
In questo rapporto tra storie aberranti e linguaggio poetico-razionale si insinua la dimensione del sacro. Pasolini definisce il tragico come l’irruzione del sacro nella vita quotidiana in una società materialista, interessata solo al progresso, alla produzione e al consumo. E il bersaglio di questa irruzione del sacro è la borghesia, vera protagonista di una tragedia epocale, cioè la tragedia di aver eliminato ogni alternativa a sé stessa, ogni lotta di classe, la tragedia di chi ha vinto scoprendo il vuoto dentro di sé.
Ecco allora le storie aberranti di un padre borghese che prima desidera e poi uccide il figlio in Affabulazione, o di un ragazzo figlio di industriali tedeschi collusi col nazismo che ama i maiali in Porcile, o di un uomo e una donna borghesi che si danno a pratiche sadomasochiste in Orgia. Ma anche grandi affreschi sul potere, come Pilade, in cui la storia d’Italia è vista attraverso i miti greci; o come Calderón, in cui la storia di Spagna, rivista richiamando due opere di Calderón de la Barca e Velásquez, diventa allegoria di un potere multiforme e diabolico; o come Bestia da stile, il cui protagonista è un poeta cèco che passa dai sogni romantici dell’adolescenza all’affermazione come cantore della rivoluzione comunista fino alla disillusione e a un amaro allontanamento dalla vita pubblica.
Di tutte queste tragedie, Pasolini riesce a portare in scena solo Orgia al Teatro Stabile di Torino. Lo spettacolo è un flusso di poesia di un’ora e 45 minuti, con pochissimi movimenti, che richiede al pubblico un’attenzione estrema per la storia minimale di una coppia borghese legata da un rituale di amore e morte, all’insegna dello scandalo. Per la recitazione, Pasolini coinvolge proprio Laura Betti, l’attrice ideale per il suo nuovo teatro, intelligente, chiara, ma anche ironica e musicale.
Ora s’è mosso qualcosa dentro la stanza, come un batticuore in un corpo: l’ho sentito. Dentro l’aria s’è mossa l’aria... una specie di colpo dalle profondità del cielo! E il contraccolpo è giunto fin qui, irrisorio alito d’aria che dà un’irriconoscibile emozione.
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Orgia debutta in uno spazio non teatrale, una grande sala per mostre d’arte. L’ingresso è tappezzato di strisce di carta stampata con slogan scritti da Pasolini come provocatoria dichiarazione di poetica. Si legge: «Non vogliamo avere successo» o anche «Il teatro è una forma di lotta contro la cultura di massa», ecc... Lo spazio scenico realizzato da Mario Ceroli consiste in un’angusta scatola bianca di tre metri per due, contenente pochi oggetti. La luce è chiara, senza gradazioni né cambiamenti. Tra un episodio e l’altro un faro si accende verso la platea e una tromba suona una Marcia funebre composta da Ennio Morricone. Ogni sera, al termine dello spettacolo, segue il dibattito, pensato come compimento indispensabile dell’opera e guidato dallo stesso autore-regista, che dichiara che «la grande novità del teatro è tutta qui. Un rapporto ‘personale’ con lo spettatore. Altrimenti, dedicarmi al teatro (scriverlo e allestirlo) non avrebbe significato». Ecco la registrazione di un dibattito, in cui Pasolini si confronta con gli spettatori sulla sua esperienza:
E infatti l’ho capito ieri sera. Per le prime tre sere il mio spettacolo è stato quel che si dice un insuccesso. È vero che io ho scritto nel Manifesto ‘Non vogliamo avere successo’. Ma questo non significa nemmeno che vogliamo avere insuccesso. Perché non vogliamo nemmeno avere insuccesso. Cioè vogliamo avere comprensione. Ora, in quanto comprensione è stato un insuccesso. Ed era il pubblico che va alle prime, cioè il pubblico borghese, molto elegante, il quale, avendo alle spalle il potere – forse dico delle cose un po’ cattive, qualcuno forse di coloro che sono venuti si offenderà, pazienza... – avendo alle spalle l’autorità della pelliccia di visone, era venuto diciamo così aprioristicamente intenzionato a giudicare anziché a instaurare un dialogo. E allora questo giudizio di dare una certa prepotenza, che è un pochino volgare, tipico di tutte le borghesie del mondo, per cui alla fine, la sua attesa essendo rimasta delusa, l’ha dimostrato chiaramente. E invece ieri è venuto il pubblico che viene di pomeriggio. Cioè, anziché la borghesia potente, col visone, è venuta la borghesia media, e quindi volonterosa, intenzionata a capire. E anche se non ha capito, alla fine ho capito che c’è stata una comprensione, c’è stato un vero e proprio dialogo tra quello che, come dici tu, avviene sul palcoscenico e quello che avviene in platea.
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Lo spettacolo, però, non ha successo, e lo stesso Pasolini non è più interessato al teatro, forse troppo più impegnativo e complesso rispetto alla scrittura o anche al cinema. Per tutta la seconda metà degli anni Sessanta la sua passione per il teatro sarà riversata anche negli altri àmbiti del suo impegno, soprattutto nel cinema, dove tutti i film di quel periodo hanno a che fare non a caso con opere teatrali, come il cortometraggio Che cosa sono le nuvole ambientato in un teatro di pupi in cui va in scena Otello di Shakespeare, o come Edipo re dove nella rievocazione della tragedia di Sofocle coinvolge come attori due icone della neoavanguardia teatrale cioè Carmelo Bene e Julian Beck. O ancora Medea, in cui si confronta con Euripide coinvolgendo come protagonista una cantante lirica, Maria Callas. E infine il film Porcile, che è la versione cinematografica di una delle sei tragedie che aveva scritto, di cui vengono ripresi quasi tutti i dialoghi.
- Avanti, baciami.
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- Ormai no.
- Perché no? Mi arrendo, vedi? Trallallera.
- La voglia di baciarti, come vedi, mi ha fatto venire la voglia di ammazzarti. Trallallà.
- Credi che anche a ciò non sarei disposta?
- E lo chiedi a me?
- Io ormai lo so.
- Non ti bacerò. Non ti ammzzerò. Perché io amo...
- Chi?
- Non c’è un chi, c’è soltanto il mio amore. Cara cavia, sei libera. L’ultimo infame esperimento è fatto.
Il teatro rimane per lui un amore non ricambiato, un’opportunità mancata, ma è stata l’occasione per la scrittura di diverse opere importanti, spunto per una riflessione che si è allargata dal teatro all’intera sua opera.
Pasolini lascia dunque nel suo corpus ben quindici opere teatrali e quattro traduzioni teatrali da Eschilo e Plauto, così come uno scritto teorico, il Manifesto per un nuovo teatro, e una fitta rete di riferimenti e riflessioni in tutta la sua opera. Tutto questo ci offre un’idea di teatro originale e stimolante, aperta alle grandi questioni della scena e al tempo stesso capace di rimetterle in discussione, arrivando fino a oggi. Perché è solo dopo la sua morte che il mondo del teatro lo ha riscoperto, riuscendo a penetrare nelle sue opere attraverso la sensibilità di attori e registi, che dalla prospettiva odierna hanno capito e saputo ridare vita al suo teatro. La metamorfosi del potere in Calderón, la dialettica generazionale in Affabulazione, la questione della responsabilità nei processi industriali in Porcile, l’affresco storico delle mutazioni sociali italiane in Pilade, l’impasse della classe borghese in Orgia e l’interrogazione sulla figura dell’intellettuale in Bestia da stile si incarnano nelle rispettive tragedie in storie da brivido, supportate da una tensione poetica che ondeggia tra poesia civile e lirica, in modo incomprensibile negli anni Sessanta del secolo scorso, ma perfettamente chiara per noi che viviamo dopo la ‘fine delle ideologie’ e dopo il ‘genocidio antropologico’ di cui Pasolini è stato il più lucido osservatore.
E forse questo slancio delle sue tragedie verso il futuro, verso interlocutori che ancora dovevano nascere, lo aveva capito a un certo punto anche Pasolini. Dopo il fallimento del suo spettacolo e dopo anni di lontananza dal teatro, invitato a un incontro con gli studenti, si presentò recitando inaspettatamente, lui stesso, proprio un monologo della sua tragedia Bestia da stile. Era il 21 ottobre 1975, dieci giorni prima della sua morte. E questo è uno degli ultimi documenti rimasti della sua voce, legata al suo teatro di poesia.
Il volgar’eloquio: amalo. Porgi orecchio, benevolo e fonologico, alla lalìa (“Che ur a in!”) che sorge dal profondo dei meriggi, tra siepi asciutte, nei Mercati, nei Fori Boari, nelle Stazioni, tra Fienili e Chiese. Poi si spegne, e col sospiro d’un universo erboso, si riaccenderà verso la fine dei crepuscoli.
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