Andrea Cortellessa, critico letterario, professore di letteratura italiana contemporanea all'Università Roma Tre, esamina in questo podcast un aspetto della figura di Pasolini a cui solitamente non si fa molta attenzione: la sua pulsione di morte, la componente tragica della sua percezione del mondo, che ha il suo culmine nel drammatico epilogo della sua vita. “Quella della morte – ci racconta Cortellessa – è una presenza ossessiva: non solo nell’ultimo Pasolini, ma sin dall’inizio del suo percorso”. E chi conosce il vitalismo dei primi romanzi romani, o dei suoi film riuniti sotto il titolo “trilogia della vita” non può che stupirsi di questa ennesima, fondamentale contraddizione. Cortellessa ce la illustra attraverso l’esame di questo motivo lungo tutta l’opera pasoliniana.
Andrea Cortellessa
I troppi che hanno santificato e mitologizzato Pasolini, nel quasi mezzo secolo che ci separa dalla sua fine tragica e ancora inelaborata, lo hanno fatto per lo più ipostatizzando nella sua opera, un valore, la vita, più o meno esplicitamente contrapponendolo alla letteratura. Immemori di come questa contrapposizione (almeno dal decadentismo in qua) sia uno dei più triti tòpoi appunto letterari, naturalmente questi lettori non fanno altro che replicare la più fortunata autodescrizione di quell’autoritrattista seriale che fu Pasolini, quella che si legge in quella singolare autobiografia in versi (scritta verso il ’66 ma pubblicata solo postuma nell’80) che è Il poeta delle ceneri1, dove la formula enfatica del "gettare il corpo nella lotta" (non lo ricordano mai, i tanti che da Pasolini l’hanno prelevata) cita – lo ricorda uno dei saggi di Empirismo eretico2 – il "verso di un innocente canto della Resistenza negra", dal movimento delle Black Panthers cioè che tanto lo avevano impressionato nella sua visita del ’66 a New York:
[…] io vorrei soltanto vivere
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pur essendo poeta
perché la vita si esprime anche solo con se stessa.
Vorrei esprimermi con gli esempi.
Gettare il mio corpo nella lotta.
[…] – in quanto poeta sarò poeta di cose.
Le azioni della vita saranno solo comunicate,
e saranno esse, la poesia,
poiché, ti ripeto, non c’è altra poesia che l’azione reale […].
Naturalmente anche la poesia dell’azione reale è sempre stata un feticcio decadente. Proprio in questa tentazione, anzi, consiste il termine di paragone più calzante col modello-antimodello, a lui sommamente sgradito, che fu per Pasolini d’Annunzio. Il d’Annunzio, s’intende, delle beffe di Buccari, dei voli su Vienna, delle imprese di Fiume: il d’Annunzio che durante la sua breve esperienza di parlamentare, negli ultimi anni dell’Ottocento, all’atto di una delle giravolte trasformistiche sempre care a quell’emiciclo, annunciò enfatico: «vado verso la vita». Ma in realtà anche in questo suo programma, in apparenza così a senso unico, Pasolini non nasconde quanto gli appartenga, in pari misura, il simmetrico rovescio dell’agognata poesia di cose: «se le azioni della vita sono espressive, / anche l’espressione è azione», e dunque anche quando esprimerà la vita solo con se stessa gli resterà di contro.
[…] sempre il rimpianto di quella poesia
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che è azione essa stessa, nel suo distacco dalle cose,
nella sua musica che non esprime nulla
se non la propria arida e sublime passione per se stessa.
La poesia, intesa come musica che non esprime nulla e che così esprime solo sé stessa, fa il paio con la vita che esprime solo sé stessa: l’una è impossibile quanto l’altra, e insieme compongono l’ennesima coppia antinomica, l’ennesima sineciosi incarnata da Pasolini. Il quale certo definì Trilogia della vita quella composta nei primi anni Settanta dai suoi film d’ambientazione medievale (gli unici fra i suoi che riscossero un grande successo di pubblico): Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte, che entusiasticamente celebravano appunto la vita, cioè i piaceri dell’esistenza corporea e del sesso in particolare. Ma fu lui stesso poco tempo dopo a pubblicare, della Trilogia della vita, una altrettanto celebre Abiura poi raccolta nelle Lettere luterane3: giungendo ad affermare di "ormai odiare i corpi e gli organi sessuali". Travolta dall’omologazione culturale denunciata dallo stesso Pasolini negli Scritti corsari, «anche la "realtà" dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico». Se «la vita» – la vita, appunto – si rivela «un mucchio di insignificanti e ironiche rovine», allora «ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione».
Ma questo stato d’animo di suicida delusione non comporta certo, in un temperamento come quello di Pasolini, un ripiegamento su sé stesso, né tantomeno una resa al silenzio. Il suo ultimo anno d’attività è viceversa, forse in assoluto, il più disperatamente vitale. Ma in tutto questo suo ultimo periodo il principio celebrato da Pasolini, della vita, è l’inverso simmetrico. Negli interventi dell’ultimissimo periodo fa cenno, fra i tanti altri, al progetto di contrapporre alla Trilogia della vita una "trilogia della morte" della quale unico episodio compiuto resta il primo, Salò. Ed è persino banale ricordare, a chi insista a celebrare in Pasolini il cantore della vita, quell’ossessivo mistero funebre che è appunto il suo ultimo film (non a caso tenuto a margine, con imbarazzo, dai suoi interpreti più agiografici). In tutte queste opere dell’ultimo Pasolini si fa evidente – ha scritto Stefano Agosti – il «progetto “mortale”» che sin dall’inizio, in verità, era sotteso alla sua traiettoria. Sempre la sua, al di là delle più o meno volontaristiche apparenze, era stata (è sempre Agosti a parlare) «una parola violentemente abitata dalla propria alterità, dalla mortalità stessa»4.
Prendiamo l’ultimo testo narrativo compiuto, La Divina Mimesis, che Pasolini comincia a scrivere nei primi anni Sessanta per poi lasciarlo nel cassetto e riprenderlo alla vigilia della morte aggiungendogli una serie di fotografie – quella che chiama Iconografia ingiallita – per finalmente licenziarlo per le stampe (sicché sarà il primo suo libro a uscire postumo). Così recita la sua breve nota iniziale:
La Divina Mimesis: do alle stampe oggi queste pagine come un “documento”, ma anche per fare dispetto ai miei “nemici”: infatti, offrendo loro una ragione di più per disprezzarmi, offro loro una ragione di più per andare all’Inferno.5
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La Divina Mimesis, dice Pasolini in un’intervista, vuol essere "un Inferno degli anni sessanta" (Saggi, II, 2941) e deriva da un abbozzo precedente che continuava i suoi romanzi “romani”, Ragazzi di vita e Una vita violenta: l’abbozzo aveva per titolo La Mortaccia e aveva per protagonista una prostituta che, conosciuta la Commedia attraverso una sua versione a fumetti, a sua volta ha una Visione appunto dell’Inferno. Il progetto si inscrive all’interno della ricorrente tentazione – non solo sua, s’intende – di misurarsi con l’inarrivabile precedente dantesco.
La cantica più congeniale, a uno spirito come quello di Pasolini, si capisce bene come non possa essere che l’Inferno. Di citazioni dall’Inferno dantesco sono costellati i suoi primi film, a connotare inappellabilmente le Malebolge suburbane che Pasolini ha conosciuto da vicino, e non ha poi mai smesso di frequentare. Ma le borgate romane, nella sua visione, resteranno sempre un luogo ambivalente. Le ha vissute davvero come un inferno nel quale espiare le proprie colpe, quando Pasolini nei primi anni Cinquanta (prima del successo di Ragazzi di vita e delle sue assidue collaborazioni con Cinecittà) ci passa anni di vera e propria miseria – in fuga dal Friuli, inseguito dallo scandalo di Ramuscello. Ma a posteriori diverrà, nella memoria, un Eden: luogo di delizie creaturali e di un’innocenza, se non una redenzione, ancora possibile (quella che in seguito Pasolini si spingerà a cercare in “periferie” sempre più remote). Questa tendenza a rileggere a rovescio il passato, sulla base dei sentimenti del presente, appartiene forse a tutti noi; ma in Pasolini diventa un vero e proprio schema compositivo. Che come abbiamo visto con l’Abiura della Trilogia della vita, e con la revisione che delle borgate romane compie Petrolio riflettendo quel mortifero desengaño, può funzionare altrettanto nei due sensi: un revisionismo negativo, per così dire, che capovolge il precedente revisionismo positivo.
Fatto sta che quella della morte è una presenza ossessiva: non solo nell’ultimo Pasolini, ma sin dall’inizio del suo percorso. Dove però la morte viene dipinta per lo più in termini positivi, attraenti e seducenti per non dire estatici. Ripercorriamo in questa chiave per esempio i suoi primi film, in apparenza così “vitalistici”. Il protagonista di Accattone, Franco Citti, alla fine muore ma con un sorriso di beatitudine sul volto; resta emblematica la sua battuta in clausola: «Ah, mo’ sto bene!»; muore d’indigestione Stracci, il poveraccio che interpreta il ladrone crocifisso accanto a Cristo nel mediometraggio La ricotta; muore Ettore, il figlio di Mamma Roma, su un letto di contenzione a Regina Coeli. In un’importante intervista, quella a Jon Halliday pubblicata in inglese nel ’69, dice Pasolini che la morte è per lui il massimo dell’epicità e del mito.
Ma in Mamma Roma la scena della morte di Ettore (nome epico per antonomasia, certo) è emblematica per almeno altri due motivi. Da un lato l’inquadratura in cui si vede il ragazzo steso sul letto di contenzione con le piante dei piedi in primo piano viene presa da diversi spettatori come una citazione dal Cristo morto di Mantegna, e Pasolini si ribella a questa estetizzazione della morte che, pure, così tanto gli appartiene. Dall’altro, all’uscita del film si sofferma sul suo sentimento tragico della morte, che accetta venga ricondotto al sostrato cattolico della sua formazione; ma riferendosi proprio alla scena chiave della morte di Ettore fa notare come la sua macchina da presa «accarezzi tutto il corpo» con un «movimento dolce che si ripete tre volte» e che «dovrebbe rappresentare quasi la dolcezza dell’affetto materno». L’estetizzazione è insomma, per lui, quanto «deve dare dolcezza a quella morte terribile»6.
S’è detto quanto fosse sgradito a Pasolini il paragone con d’Annunzio, che era stato però una matrice ineludibile nei suoi anni di formazione. In particolare in casi come questa scena di Mamma Roma è difficile non pensare alla Contemplazione della morte, raccolta di prose pubblicata da d’Annunzio nel 1912; specie alla terza, nella quale l’Imaginifico descrive compiaciuto la postura dell’amico Adolphe Bermond, ormai vicino alla fine, sul suo letto d’ospedale.
La dolcezza estenuata di questo estetismo funebre è in effetti una cifra che accompagna Pasolini sin dal suo inizio, come si vede – si può dire ad apertura di pagina – nella sua raccolta poetica d’esordio, le Poesie a Casarsa pubblicate a vent’anni. La poesia emblematicamente posta all’inizio della sua opera poetica s’intitola Il Nini muàrt, Il fanciullo morto (Poesie 2003, I, 10):
Sera imbarlumida, tal fossàl
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a cres l’aga…
[Sera luminosa, nel fosso cresce l’acqua, una donna incinta cammina per il campo. Io ti ricordo, Narciso, avevi il colore della sera, quando le campane suonano a morto].
Ma l’episodio più significativo è quello dal titolo Il dì da la me muàrt, Il giorno della mia morte (Poesie 2003, I, 78-9), nel quale Pasolini prefigura appunto la propria morte. È il primo di una lunga serie, quest’oroscopo funesto. A colpire, pensando alla notte di Ostia di trentatré anni dopo, è il finale del Dì da la me muàrt:
[lo sarò ancora giovane, con una camicia chiara e coi dolci capelli che piovono sull'amara polvere. Sarò ancora caldo, e un fanciullo correndo per l'asfalto tiepido del viale, mi poserà una mano sul grembo di cristallo]
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S’intitola emblematicamente Cjants di un muàrt un riordinamento delle sue poesie friulane che manda Pasolini al loro primo lettore, Gianfranco Contini, nel 19477. Il libro uscirà in effetti solo diverso tempo dopo, nel ’54, col titolo mutato in La meglio gioventù (titolo a sua volta funereo, però, perché ripreso da un canto degli alpini che ricorda quella gioventù finita «sotto terra»). E dello stesso ’47 è anche uno dei quadri che Pasolini dipinge con assiduità, in questo periodo, che ritrae un Narciso alla fonte: copia di maniera del celebre dipinto conservato a Roma a Palazzo Barberini e allora attribuito a Caravaggio. Quella di Narciso, per come la racconta Ovidio nelle Metamorfosi, è una favola di contemplazione e morte. Nella fontana posta all’inizio di Poesie a Casarsa si specchia il giovane invaghito di sé stesso: e nella propria immagine finisce per precipitare. Ma nel tessuto della raccolta d’esordio la figura di Narciso si sovrimprime ad altri due archetipi: quello di Edipo e quello di Cristo. Di Edipo ho parlato nella conversazione dedicata alla poesia di Pasolini, mentre qui è il caso di soffermarsi sulla figura di Cristo (tenendo sempre presente, però, la dominante di Narciso). Quando Fabio Mauri proietterà le immagini del Vangelo secondo Matteo sul corpo di Pasolini nell’«azione complessa» intitolata Intellettuale, nel maggio del ’75 – l’ho già ricordato – intendeva operare una sovrimpressione non solo concettuale, ma proprio iconica, della figura dell’amico con quella del Cristo da lui messa in scena nel suo film di un decennio prima. Il Christus patiens che si presta alla funzione di “schermo vivente” era, per il cristianissimo Mauri, davvero un alter Christus.
E in effetti per Pasolini il sacrificio di Cristo resterà sino alla fine, come vedremo, una favola d’identità decisiva. Nel suo primo tentativo di narrazione, il più scopertamente autobiografico – che si alterna infatti al suo diario, fra il ’46 e il ’47 –, i cosiddetti Quaderni rossi poi in parte rielaborati nel romanzo incompiuto Atti impuri pubblicato postumo nell’82, si legge non a caso questa, che viene presentata come una fantasia sadomasochistica e, insieme, esibizionisticamente "voluttuosa": «nelle mie fantasie apparve espressamente il desiderio di imitare Gesù nel suo sacrificio […]. Mi vidi appeso alla croce, inchiodato. I miei fianchi erano succintamente avvolti da quel lembo leggero, e un’immensa folla mi guardava» (RR I, 136).
Ma è la figura di Narciso che consente a Pasolini di sdoppiarsi ogni volta in due, così portando in scena entrambe le tendenze contrapposte che sa di inguaribilmente incarnare. Come nella Divina Mimesis, nella quale lo stesso Pasolini impersona tanto Dante che Virgilio, o in Petrolio, dove si scinderà in Carlo di Polis e Carlo di Tetis, lo schema-Narciso prevede sempre, infatti, una doppia immagine: quella dall’interno del personaggio, contemplata allo specchio, e quella dall’esterno, che inquadra per così dire “oggettivamente” la figura del giovane reclinato verso la propria immagine. In questo modo Pasolini può ogni volta inscenare la sua morte, ma al contempo anche la sua sopravvivenza, la sua trasfigurazione: cioè appunto la sua trasposizione in immagine.
Marco Antonio Bazzocchi ha ricordato8 una lunga e poco nota poesia del ’68, Coccodrillo (tre anni dopo rimasta esclusa da Trasumanar e organizzar, e pubblicata postuma solo nell’83: Poesie 2003, II, 226 sgg.), nella quale la ricorrente prefigurazione della propria morte è disposta da Pasolini nel format dell’articolo d’occasione preparato in anticipo – detto appunto «coccodrillo», nel gergo dei giornali, per le sue lacrime artefatte.
[…] pur vivendo fuori legge, egli fu umanista.
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Abbandonò gli studi per girovagare per le periferie
e per girare films: ciononostante gli studi erano in lui;
ozi riempiti da un lavoro che è in realtà una droga.
Così arrivò a quarantasei anni, l’età di questa ipotetica morte, […]
Proprio in quel 1968, anno in cui senza molto dispiacere
sperimentalmente spirò,
ebbe la prima crisi vera della sua vita. Perché?
Perché per la prima volta si rese conto d’essere un padre.
È possibile che qui Pasolini alluda all’episodio di Valle Giulia, nel marzo di quel ’68, quando pubblica sull’Espresso la famigerata poesia Il Pci ai giovani!! (poi sintomaticamente esclusa dalle sue raccolte poetiche per essere invece collocata fra i saggi di Empirismo eretico) nella quale, com’è arcinoto, si schiera per i poliziotti padri di famiglia proletari contro gli studenti figli di papà borghesi. Nella prima delle Lettere luterane, scritta all’inizio del ’75, Pasolini esplicitamente si rimprovererà delle colpe dei «padri», cioè della classe borghese alla quale appartiene (pur non cessando di rivendicare, al tempo stesso, il proprio «essere figlio»), per dar conto delle accuse da lui rivolte ai «figli»: perché è su di loro, come nella tragedia classica, che ricadono le colpe dei padri (Saggi sulla politica, 542-3).
Dell’odio-amore per la borghesia tratta a lungo il Coccodrillo del ’68. Dello stesso anno è pure Teorema, unico film “borghese” girato da Pasolini, nel quale si rispecchia nei due personaggi che portano, scissi, il suo nome: il figlio Piero, complessato e infelice artista d’avanguardia, e il padre di famiglia Paolo (interpretato nel film da Massimo Girotti): che è l’ultimo a cedere, ma più rapinosamente, al fascino sterminatore dell’Ospite interpretato da Terence Stamp. Ma ecco la conclusione del lungo Coccodrillo in versi:
[…] egli passò l’esistenza
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diviso esattamente a metà (fu cioè ambiguo):
credette in tutto quando non credette più in nulla.
Come tutte le persone non normali e quindi non sante,
non lasciò rimpianto dietro di sé; né ebbe lacrime.
Piansero solo disperatamente sua madre, Graziella e Ninetto.
Ricominciamo, ché il naufragar m’è dolce in questo mare.
Scontata clausola leopardiana a parte, è da rimarcare come l’ultima parola su di sé, una volta di più, Pasolini la dedichi alla propria scissione. Ma qui c’interessa soprattutto un passo precedente che si sofferma sull’altra scissione, quella di punti di vista di cui parlavo prima. Dopo la sua morte, scrive di sé Pasolini sempre in terza persona,
non resta che farne un elogio funebre, brachiologico,
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redatto quindi da un altro punto di vista: quello romano. […]
Tale punto di vista è semplicemente meraviglioso
perché permette di oggettivare il narcisismo […]
Non un’osservazione
esercitata sulla vita che si muove, maledetta,
rendendo opinabili tutti i più stravaganti acumi,
inattendibili tutte le più profonde illuminazioni su di sé:
ma un’osservazione narcissica esercitata dopo la morte, allorché
il montaggio, comunque, è concluso – e la storia è una.
Mai oggetto di narcisismo fu più fecondo di un cadavere.
Il dispositivo che consente di alternare due diversi punti di vista, nel cinema, è appunto il montaggio: che da più riprese, appunto, compone una storia che è una. E infatti è su questo dispositivo che s’incentra il saggio più geniale di Pasolini, scritto poco prima di questi versi. L’intervento pronunciato nella primavera del ’67 alla mostra del cinema di Pesaro, col titolo La paura del naturalismo, viene pubblicato in due parti l’estate seguente per poi apparire in sequenza, appunto, nel volume saggistico Empirismo eretico, che esce nel ’72 e che si legge come il testo a fronte teorico e riflessivo dei capolavori dell’ultimo e straordinario decennio di attività di Pasolini. Il saggio fa seguito a un altro hors d’oeuvre speculativo e, mi spingerei a dire, “filosofico”: quella Sceneggiatura come «struttura che vuol essere altra struttura», saggio di cui ho già parlato e pubblicato nel ’66, in cui espone un’idea di testualità come «processo», cioè «morfologicamente in movimento» (Saggi, I, 1498-9). Esemplificata appunto sulla sceneggiatura, quanto cioè nel processo produttivo del cinema attende «una compiutezza “visiva” che essa non ha, ma a cui allude» (ivi, 1492): una struttura che si definisce dunque in relazione a qualcosa che si trova al suo esterno, e a venire.
Sono quelle che Pasolini chiama «opere da farsi». In Poesia in forma di rosa, del ’64, c’è un lungo componimento che s’intitola Progetto di opere future (Poesie 2003, I, 1245-56). E l’anno dopo pubblica un libro affascinante, Alì dagli occhi azzurri, che si presenta come un deposito di abbozzi e sentieri interrotti e dove di queste strutture si leggono diversi esempi: che, a partire da quest’altezza, l’autore presenta come pre-testi «da farsi»: è il caso delle «riduzioni narrative» di alcune delle sceneggiature prodotte per Cinecittà. In una lettera alla rivista «Filmcritica», cui destina la sceneggiatura vera e propria della Notte brava scritta per Mauro Bolognini, Pasolini già nel ’59 si mostra consapevole dello statuto differente di questo testo “di servizio” rispetto alla sua «riduzione narrativa», quello che definisce un «vero e proprio monstrum delle nuove lettere»9 e finirà sei anni dopo in Alì dagli occhi azzurri. In questo volume figura anche un racconto, intitolato Rital e raton, che viene scritto per l’occasione come «racconto che non si farà mai» (RR 1971). Il racconto mette in scena a Parigi un ragazzo arabo, reduce dalle rivolte in Algeria, e uno italiano che proviene invece dal fondo della Prenestina (un raton e un rital, appunto, come li chiamano spregiativamente i razzisti francesi [RR 881]), e si conclude così: «si sentiva che il mondo aveva bisogno di novità, di grandi novità» (RR 887).
Pasolini allude naturalmente alla speranza rivoluzionaria che seguendo il Sartre di quegli anni – lo abbiamo visto – associava ai rappresentanti di quelle che chiamava le «subtopie» del mondo. In termini invece prettamente letterari, la «novità» «da farsi» è La Divina Mimesis, che Pasolini ha cominciato qualche tempo prima ma che, quando finalmente la licenzierà per le stampe nel ’75, davvero avrà qualcosa di mostruoso: come in Petrolio la struttura «da farsi» si dispone su diversi piani temporali (al dispiegarsi dei quali è funzionale l’«iconografia ingiallita», cioè la «poesia visiva» fotografica che conclude La Divina Mimesis e, con ogni probabilità, avrebbe dovuto figurare pure in Petrolio) ma sin da allora, come si legge in un appunto del ’64, è concepita come «un misto di cose fatte e di cose da farsi»10: proprio come si presenterà il monstrum che in tutti i sensi sarà Petrolio.
Il principio che informa La Divina Mimesis è desunto da un saggio del grande filologo ebreo tedesco Erich Auerbach (che sistematizza questa sua idea nel grande affresco sulla «rappresentazione della realtà nella letteratura occidentale» dal titolo Mimesis, appunto), Figura: quello di «integrazione figurale», tipica della concezione medievale del tempo sospesa tra una pre-figurazione rivolta al futuro e l’adempimento, a posteriori, di quella stessa “promessa”. Il sintagma «integrazione figurale», al solito, viene piegato da Pasolini in un’accezione estranea a chi lo aveva coniato, con esso alludendo pure alla collaborazione di un lettore chiamato a visualizzare mentalmente le immagini “pre-figurate” dal testo.
Dopo averlo usato una prima volta nella sua originaria accezione stilistica, in un saggio di Passione e ideologia (Saggi, I, 1118)11, colpisce però il modo in cui il sintagma «integrazione figurale» viene impiegato da Pasolini, nell’agosto del ’60, in uno dei dialoghi da lui tenuti coi lettori sulla rivista «Vie nuove». La sua direttrice Maria Antonietta Macciocchi era entrata in possesso di una registrazione dei colpi d’arma da fuoco coi quali il mese prima le forze dell’ordine avevano ucciso cinque militanti comunisti, a Reggio Emilia, che prendevano parte alle proteste contro il governo Tambroni il quale, per la prima volta dopo la fine della guerra, aveva accolto nella sua maggioranza i fascisti del Movimento Sociale Italiano; e ne aveva fatto un disco destinato alla distribuzione insieme alla rivista. Pasolini definisce quel disco «il più terribile – e anche profondamente bello – che abbia mai sentito». Nessuna sperimentazione dell’avanguardia musicale del suo tempo è paragonabile a quella «semplice riproduzione di una “materia pura”, suoni, urli, spari, rumore»: anche perché mentalmente chiunque la ascolti, e sappia cosa è avvenuto in quelle circostanze, opera una «integrazione figurale» che – «è atroce dirlo», commenta Pasolini – consiste nella «morte dei giovani lavoratori di Reggio» (Saggi sulla politica 897). Più in generale, per lui «integrazione figurale» può voler dire un prolungamento del testo in una forma d’azione extra-letteraria (in questo caso politica, rivoluzionaria): recensendo nel ’61 un’antologia di Letteratura negra, per esempio, la trova letterariamente «ingenua e quasi passiva», ma non importa perché in casi come questo a prevalere è l’«integrazione figurale» che, come quella «richiesta da ogni poeta», consiste nella «lotta» (Saggi, II, 2344). Non siamo distanti da quello che altrove (nel poemetto La realtà, in Poesia in forma di rosa: Poesie 2003, I, 1109) Pasolini definisce, per sé stesso, il «fine pratico della sua poesia». E si capisce allora che il finale sospeso di Rital e raton allude appunto a una «grande novità» che si trova, negli auspici dell’autore, fuori e nel futuro del testo: la «lotta» comune dei due esclusi, provenienti da realtà assai distanti ma destinati a unire le loro forze in una prospettiva rivoluzionaria.
Colpisce però come, pensando a sé stesso invece, con l’integrazione figurale Pasolini alluda piuttosto alla propria morte. Nella Divina Mimesis non manca infatti – consegnata a una nota dell’immaginario filologo che rinviene i frammenti del testo incompiuto – la notizia della morte dell’autore «a Palermo, l’anno scorso» (RR II, 1119). Menzionando la sede del fattaccio, Pasolini allude senz’altro ai «nemici» neoavanguardisti del Gruppo 63: la cui riunione inaugurale s’era tenuta appunto a Palermo, e che tornarono a incontrarsi nella stessa città nel ’65. Niente di diverso, in fondo, nella più celebre tra le prefigurazioni della propria morte, quella contenuta nel grande poemetto Una disperata vitalità di Poesia in forma di rosa, a sua volta costruito come una sceneggiatura.
Nell’altro grande saggio di Empirismo eretico che fa filosofia col cinema12, il montaggio cinematografico viene paragonato da Pasolini proprio alla morte. La sua prima parte, Osservazioni sul piano-sequenza, parte dal celebre filmato di ventidue secondi girato da Abraham Zapruder a Dallas, nel novembre del ’63, inquadrando il presidente degli Stati Uniti John Kennedy nel momento in cui veniva raggiunto dai colpi di fucile del suo attentatore (o dei suoi attentatori). L’estrema azione da lui compiuta morendo, dice Pasolini, è analoga all’attribuzione di senso che alle immagini del cinema conferisce il montaggio: «la morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita», «facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo» (Saggi, I, 1560). Dice in forma di slogan la seconda parte del saggio, Essere è naturale?: «O essere immortali e inespressi, o esprimersi e morire» (Saggi, I, 1569).
In un altro saggio di Empirismo eretico, I segni viventi e i poeti morti del ’67, alle critiche al «pericolo spiritualistico di quella sua idea della morte», Pasolini ribatte che si tratta viceversa di un’«idea comportamentistica e morale: non guardava al dopo della morte, ma al prima: non all’al di là, ma alla vita». E conclude: «credo sia difficile essere più laici di così» (Saggi I, 1575-6). Mi pare però lecito dubitarne, in effetti. In un altro scambio di battute coi suoi critici, Pasolini fa una delle sue ricorrenti professioni di laicità – eloquenti, ogni volta, come negazioni freudiane – ammettendo, quale unica componente spirituale del suo DNA, il credere da parte di sua madre «in un mondo pieno di fossile dolcezza» (Saggi, I, 1615). L’anno dopo è quello di Teorema e, come in precedenza interpretando Maria nel Vangelo secondo Matteo, vi figura appunto, muta e piena di senso, sua madre Susanna: che appare nel finale come rappresentante-simbolo del mondo arcaico, pieno di fossile dolcezza, del quale è originaria Emilia, la serva (interpretata da Laura Betti) della famiglia borghese invasa dall’Ospite, che vi torna in preda al più profondo e inesprimibile turbamento.
Tornata al suo paese, a sua volta in silenzio, Emilia compie una serie di miracoli che culminano nell’atto di levitare «sospesa nel cielo», «a braccia aperte», «contro la nuvolaglia grigia, tra cui trapela […] un assurdo sereno» (RR, II, 1033): nella postura cioè che l’iconografia cristiana (per esempio nell’estremo capolavoro di Raffaello, conservato ai Musei Vaticani di Roma) attribuisce al Salvatore nella Trasfigurazione. Infatti la folla che la guarda sospesa in aria «riconosce davanti ai propri occhi l’antica e ben nota presenza di Dio». È il segno che, per Emilia come per Cristo, «è giunto il momento di morire» (RR, II, 1039). Per farlo si avvia verso il luogo cui è legata la parentesi della sua esistenza borghese, Milano, piangendo copiosamente accompagnata da una «vecchia compagna senza nome». Nella periferia della città, all’ombra di una gigantesca «scavatrice», si trova una buca profondissima: in quella fossa Emilia si distende coprendosi anche il volto di fango, sempre assistita dalla sua anziana compagna. Poi la scavatrice riprende a funzionare, e ricopre definitivamente di terra «la santa». Ma dalla terra le lacrime di Emilia continuano a uscire, e quell’acqua santa compie un estremo miracolo: un operaio rimasto ferito sul lavoro ne viene risanato (RR, II, 1045). La vecchia, abbigliata come la Morte nel Settimo sigillo di Ingmar Bergman, si allontana sempre in silenzio: a interpretarla è appunto Susanna Colussi.
L’episodio riscrive un celebre componimento delle Ceneri di Gramsci, Il pianto della scavatrice, dove quell’emblema di spietata modernità accompagnava una compiaciuta regressione in cui i sobborghi romani si sovrimprimevano ai paesaggi di un ennesimo Sud del mondo. Ma mentre nel ’56 l’ultima immagine è per il «rosso straccio di speranza» operaia, per cui «piange ciò che muta, anche / per farsi migliore» (Poesie 2003, I, 849), nel ’68 alla ferita della modernità si può solo dare lenimento, e la risposta sta tutta semmai nella civiltà contadina: la quale è morta e sepolta, sì, ma come si vede resta tuttavia miracolosa.
Ha scritto Zanzotto che Emilia è «la figlia della terra», e che il suo pianto miracoloso è «una specie di sudorazione sanguigna “cristiana”»13. E in effetti è impossibile non pensare a questo personaggio in termini cristiani. Nel film Emilia si rivolge a Susanna dicendo che le sue lacrime «saranno una sorgente… che non sarà una sorgente di dolore» (Per il cinema, I, 1090). Il suo interramento ha allora un senso simile a quello «soto tera, come nel canto degli Alpini», della Meglio gioventù che – ha scritto sempre Zanzotto – «era sotterra com’è sotterraneo il seme»14. Mentre nella tetra riscrittura degli stessi versi che è la Nuova gioventù, parrebbe questo il pensiero di Zanzotto, quella morte non è passibile di alcuna redenzione, né tanto meno trasfigurazione, stendendosi come una coltre inappellabile sulla sorte dell’autore di quei versi.
E invece è proprio nella riscrittura dei versi friulani del Giorno della mia morte, nella Nuova gioventù (Poesie 2003, II, 480), che Pasolini pone in esergo queste parole del Vangelo di Giovanni, similitudine folgorante con la quale Cristo prefigura a sua volta la propria stessa morte:
... se il chicco di grano, caduto in terra,
⏤
non morirà, rimarrà solo, ma se morirà
darà molto frutto.
San Giovanni, Vangelo 12.24
(citato da Dostoevskij)
Dostoevskij è un riferimento decisivo per Pasolini, in particolare per quest’ultima sua raccolta poetica15; ma qui forse la suggestione evangelica passa anche dalla “scandalosa” autobiografia di un altro punto di riferimento della sua giovinezza, André Gide: un cui libro del 1924 a sua volta riportava quel passo dei Vangeli in esergo e ne prendeva il titolo, Se il grano non muore16.
In un contesto autobiografico come quello di Gide, l’immagine allude alla metamorfosi che comporta l’uscita dall’adolescenza e l’ingresso nell’età matura: passaggio che rappresenta una “morte” e una “rinascita” rituale, antropologicamente parlando; ma quella “morte”, nell’interpretazione di Pasolini, non può essere solo una metafora. Nella tensione cristomimetica che gli appartiene sin dall’infanzia, come abbiamo visto, la morte individuale deve invece necessariamente replicare quella del Salvatore: e questa semina di futuro può farsi solo dal basso, materialmente da sottoterra: come mostra, esemplarmente, l’Emilia di Teorema.
È questa sua ultima e non così vulgata lezione, credo, che dobbiamo raccogliere. All’inizio di questo percorso ricordavo l’apologo di Elvio Fachinelli su quelle popolazioni primitive che anziché seppellire gli antenati credono di poterseli tenere vicini cibandosi delle loro carni. La «negazione della morte individuale», da parte di questo pensiero mitico, è la stessa – secondo lo psicoanalista – di tanta parte dell’industria culturale che vuole farci continuare a divorare le spoglie dei suoi feticci. E invece Pasolini, quando in Uccellacci e uccellini fa sua una battuta famosa del filologo Giorgio Pasquali, «i maestri vanno mangiati in salsa piccante», credo ci dica che la prima cosa che dobbiamo fare è dare finalmente pace ai loro corpi, appunto seppellendoli una buona volta, e nutrirci invece di quanto ci hanno voluto lasciare: cioè la loro opera. Finché non lo avremo sepolto davvero e fino in fondo, Pasolini, non riusciremo mai a raccoglierne l’eredità.
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1 Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll, vol. II, Mondadori, Milano 2003, pp. 1287-8. D’ora in poi il riferimento a questa edizione verrà dato nel testo con l’indicazione Poesie 2003.
2 Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., vol. I, Mondadori, Milano 1999, p. 1438. D’ora in poi il riferimento a questa edizione verrà dato nel testo con l’indicazione Saggi.
3 Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., vol. I, Mondadori, Milano 1999, pp. 599-603. D’ora in poi il riferimento a questa edizione verrà dato nel testo con l’indicazione Saggi sulla politica.
4 Stefano Agosti, La parola fuori di sé. Scritti su Pasolini, Piero Manni, Lecce 2004.
5 Pier Paolo Pasolini, Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, con due saggi di W. Siti, 2 voll., vol. II, Mondadori, Milano 1998, p. 1071. D’ora in poi il riferimento a questa edizione verrà dato nel testo con l’indicazione RR.
6 «Mamma Roma», ovvero dalla responsabilità individuale alla responsabilità collettiva, in «Filmcritica» 125, settembre 1962; ora in Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti, F. Zabagli, 2 voll, vol.II, Mondadori, Milano 2001, pp. 2833 e 2828. D’ora in poi il riferimento a questa edizione verrà dato nel testo con l’indicazione Per il cinema.
7 Pasolini a Gianfranco Contini, 23 luglio 1947, in Id., Le Lettere, a cura di A. Giordano, N. Naldini, Garzanti, Milano 2021.
8 Marco Antonio Bazzocchi, Alfabeto Pasolini, il Mulino, Bologna 2022, p. 107.
9 Pasolini a Edoardo Bruno, lettera del 1959, in Id., Le lettere, Garzanti, Milano 2021, p. 1195. Cfr. Franco Zabagli, Filologia minima su Pasolini e altro, Ronzani, Vicenza 2022.
10 Cit. in Walter Siti, Narrare, descrivere, esporsi [1998], in Id., Quindici riprese. Cinquant'anni di studi su Pasolini, Rizzoli, Milano 2022, p. 191.
11 In un saggio recente Gian Luca Picconi (Aroma di Vico. Appunti su Pasolini e Auerbach, in Il Medioevo secondo Pasolini, numero monografico a cura di Silvia De Laude, Paolo Desogus, Lisa Gasparotto e Stefania Rimini de «La rivista di Engramma», 189, marzo 2022, pp. 11-43) segue con attenzione la deformazione creativa (diciamo anzi l’integrazione figurale) del concetto di Auerbach, compiuta da Pasolini nella sua scrittura saggistica ricorrendo a un altro grande «critico stilistico» come Leo Spitzer, e alla teoria sociale dei generi – invece piuttosto remota – di György Lukács.
12 Polemizzando coi semiologi come Umberto Eco, che avevano trovato di «singolare ingenuità semiologica» i saggi precedenti di Empirismo eretico, propugna Pasolini una «Semiologia», come la sua ovviamente, che per la prima volta consideri «la Realtà stessa come linguaggio»: e che «la porterebbe a essere Filosofia» (Saggi, I, 1574).
13 Andrea Zanzotto, Su «Teorema» (film e scritto) [1988], in Id., Aure e disincanti nel Novecento letterario, Mondadori, Milano 1994, p. 164.
14 Id., Pasolini poeta [1980], ivi, p. 159.
15 Nella traduzione di Pietro Zveteremich pubblicata da Garzanti nel ’73 (e recensita da Pasolini l’anno seguente in uno degli articoli poi raccolti in Descrizioni di descrizioni), è questa l’espressione usata per rendere lo stato d’animo di Raskol’nikov, quando confessa a Sonja l’atto gratuito rappresentato dall’omicidio di cui si è macchiato.
16 Gide è un riferimento costante nei Quaderni rossi. Proprio Se il grano non muore pare citato nel passo riportato nella Cronologia delle Lettere 2021, p. 71 (e cfr. p. 102, ma cfr. di contro p. 617). Nel 1949 dichiara di «ammirarlo incondizionatamente» (p. 610).