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Il cinema di Pier Paolo Pasolini. I
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Il cinema di Pier Paolo Pasolini. I
Roberto Chiesi, critico cinematografico e responsabile del Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna, ci accompagna in un’esplorazione del cinema pasoliniano: in questo podcast illustra l’attività del regista dagli inizi fino a "Edipo re", mettendo in relazione i film d’arte con la produzione documentaristica.

Pasolini arriva al cinema come regista abbastanza tardi, spinto – come dichiara egli stesso – dal “bisogno di cambiare tecnica” e dalla convinzione sempre più radicata che il cinema non sia che una “variante tecnica della letteratura”. Ma, soprattutto, è spinto da un moto interiore verso la rappresentazione della realtà.

Il suo primo film, "Accattone", esce nel 1961. Da allora gira 12 lungometraggi, parti di film a episodi, documentari. I suoi film suscitano interesse nella critica e nel pubblico, ma sono anche assai controversi: l'episodio "La ricotta", a esempio, costò a Pasolini una condanna per vilipendio alla religione. Ma "Il Vangelo secondo Matteo" venne considerato dal giornale del Vaticano, «L’Osservatore Romano», “forse la migliore opera su Gesù nella storia del cinema”.

Roberto Chiesi, critico cinematografico e responsabile del Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna, ci accompagna in questa esplorazione del cinema pasoliniano: in questo podcast illustra l’attività del regista dagli inizi fino a "Edipo re", mettendo in relazione i film d’arte con la produzione documentaristica.

 

Roberto Chiesi

La parola che Pier Paolo Pasolini evocava sempre a proposito del proprio cinema era “la realtà”: “Il cinema mi ha obbligato a restare sempre al livello della realtà, ‘dentro’ la realtà: quando faccio un film sono sempre dentro la realtà, fra gli alberi e fra la gente (...); non c’è fra me e la realtà il filtro del simbolo o della convenzione, come c’è nella letteratura”.1

L’amore per il cinema – per la prassi del cinema come creazione di immagini, non tanto per la visione da spettatore – equivaleva quindi all’amore per il reale, perché il cinema “è un linguaggio non simbolico e non convenzionale, a differenza della lingua parlata o scritta, ed esprime la realtà non per mezzo di simboli ma attraverso la realtà stessa”.2

Pasolini scoprì quindi nel cinema, nell’uso anche manuale, diretto, in prima persona, della macchina da presa, un’arte che gli consentiva di possedere senza filtri o intermediazioni il corpo del reale. La passione per questa forma espressiva lo indusse a intraprendere un’intensa e incessante attività di cineasta – ventitré film, compresi il corto e mediometraggi, in meno di quindici anni – che continuò ad affiancare a quella, altrettanto ininterrotta, di poeta, narratore, saggista e autore di teatro.

La “realtà” cui alludeva Pasolini si identificava con il mondo popolare, con i corpi e i luoghi di quel mondo, con il suo linguaggio verbale e corporale, che egli andava a cercare e a filmare dove ancora sopravviveva, dove continuava a differenziarsi dalla “normalizzazione” borghese, nelle periferie romane, nel Sud d’Italia, in Africa o in Oriente: un mondo umile e arcaico che aveva mantenuto la propria identità nei secoli e che Pasolini difendeva ed esaltava (senza edulcorarne mai la violenza) con il cinema, portando le immagini di quel mondo, perlopiù reietto o ignorato, nelle sale delle città borghesi.

La realtà non era un concetto asettico e “puro”, ma era sempre il risultato di una contaminazione di elementi contraddittori, era sempre una materia impura e proprio per questo fertile.

In quella parola Pasolini intendeva anche il mistero del reale, ossia l’oscurità delle passioni e dell’irrazionalità degli individui, l’inespresso esistente che è celato nella storia e nell’identità di un io e che il cinema può suggerire con il primo piano di uno sguardo o con un’azione del corpo dove affiora il segreto di una pulsione che sfugge alla logica.

Quindi il cinema affonda anche nella dimensione onirica, nella dimensione del sogno. E non a caso la prima immagine cinematografica che colpì l’immaginazione di Pasolini fu quella di una brochure pubblicitaria relativa a un film che Pasolini in realtà non vide mai, Orchidea selvaggia (Wild Orchids, 1929) di Sidney Franklin, con Greta Garbo. La brochure rappresentava un esploratore che stava per essere divorato da una tigre: la posa languida che aveva il corpo del giovane nelle fauci della belva dava all’immagine qualcosa di sadomasochista che, come una visione onirica, si impresse nella fantasia di Pasolini.

Dall’ultimo uomo Accattone a Stracci di "La ricotta"

Il cinema per Pasolini ebbe subito i crismi di una “rivelazione” visiva e sonora, fin dal momento in cui, da studente, assistette alle lezioni di Roberto Longhi, grande storico e critico d’arte, che proiettava sulle pareti di una piccola aula universitaria di Bologna le diapositive in bianco e nero con le riproduzioni dei dipinti di Masaccio e Masolino. In quelle proiezioni di immagini immobili, provenienti da epoche remote, dove i corpi di un’umanità popolare si incarnavano nelle linee, nei volumi, nei cromatismi (in quel caso il bianco, il nero, il grigio) e nei luminismi della grande tradizione figurativa del Trecento, “il cinema agiva”,3 ossia il susseguirsi di diapositive, nell’immaginazione del giovane Pasolini, evocava il movimento del cinema che trovava una composizione formale mediata dalla pittura. 

Alle lezioni di Longhi, con la visione di quelle immagini che illustravano episodi tratti dai Vangeli, in Pasolini si risveglia anche il senso del sacro, si compie una vera e propria rivelazione del carattere sacrale della realtà. Si tratta di un aspetto molto contraddittorio delle convinzioni di Pasolini, che era ateo ma nello stesso tempo aveva una visione non materialista della realtà, anzi piuttosto spirituale. Non erano le forme tradizionali della religiosità a interessarlo, la sua era piuttosto una visione che si collegava al concetto di religione arcaica, quasi precristiana, soprattutto del mondo contadino e del mondo popolare.

In quegli stessi anni di formazione universitaria, Pasolini fece anche le prime scoperte cinematografiche, gli autori che avrebbe amato per tutta la vita. Erano pochi, in realtà, tre in tutto: Chaplin, Carl Theodor Dreyer e Friedrich Wilhelm Murnau. Un inglese che però lavorava negli Stati Uniti, un danese e un autore del cinema tedesco, a cui poi si sarebbero aggiunti pochissimi altri, quali il giapponese Kenji Mizoguchi, Ingmar Bergman, tra gli italiani primo tra tutti Federico Fellini, tra i francesi soprattutto Jean-Luc Godard e più tardi Paul Vecchiali. Ma in generale pochi cineasti furono alla base del suo immaginario di regista, più che altro furono i pittori a essere determinanti.

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Il primo testo che Pasolini scrisse pensando al cinema, “Il giovine della primavera”,4 è un testo giovanile, del 1940. È un testo acerbo, Pasolini aveva solo diciotto anni. Tuttavia già ci sono elementi del futuro Pasolini: il succedersi di quadri, di azioni, la presenza di dettagli del corpo, oggetti e luoghi, già idealmente inquadrati secondo quella frontalità che successivamente sarà peculiare del suo stile. Fin da allora l’immaginario cinematografico pasoliniano contempla la fisicità di individui, spazi e oggetti per possederne l’essenza, l’energia, il respiro. Nel testo si evidenziano rimandi alla scultura classica, ai grandi scultori greci. Infatti probabilmente Pasolini si è ispirato al libro sull’arte classica di Pericle Ducati.

Il primo personaggio del cinema di Pasolini, il Vittorio Cataldi di Accattone (1961) interpretato da Franco Citti, è un uomo che vive nell’incoscienza di sé e nella più assoluta marginalità sociale (lo sfruttamento della prostituzione e il furto sono le sue uniche attività di sostentamento). Mai prima di allora un “ultimo uomo” come Accattone era stato raccontato al di là di ogni schematismo moralistico, filmato in un mondo “preistorico” di borgate calcificate e polverose, sotto un sole “funereo”: Pasolini esprime la tragedia di questo “dannato”, che intraprende inconsapevolmente un percorso di riscatto, nella grana satura di un’immagine dai bianchi e neri violentemente contrastati. Fu proprio questo tipo di fotografia che Pasolini chiese al grande Tonino Delli Colli, direttore della fotografia di Accattone, e per fargli capire che cosa intendeva tra l’altro gli mostrò la scena onirica de Il posto delle fragole di Ingmar Bergman.

Già questa scelta estetica costituì una deliberata, rivoluzionaria trasgressione dei codici filmici convenzionali. La “realtà inespressa” del protagonista si rivela nella stupenda sequenza dell’incubo in cui vede dei cadaveri insepolti fra le macerie di quella borgata, Gordiani, che il boom economico sta cancellando per sempre, poco prima di assistere al proprio funerale e di supplicare il becchino che gli conceda una sepoltura al sole, anziché nella triste zona d’ombra del cimitero a cui era stato destinato. Accattone avverte quindi oscuramente di essere destinato a soccombere, proprio come l’umanità delle borgate cui appartiene sta per essere cancellata dallo sviluppo degli anni Sessanta.  

Con il secondo film, Mamma Roma (1962), si esce già dal mondo delle borgate: infatti l’omonima protagonista, una ex prostituta, aspira per sé e per il figlio Ettore a un futuro di integrazione borghese a Casal Bertone. La tragedia di un figlio costretto a una vita che non gli appartiene, perché la madre lo sradica dalla campagna dove era cresciuto e lo costringe a integrarsi in questo ambiente piccolo borghese, provoca anche la tragedia della madre, che lo perderà. Per il personaggio di Mamma Roma Pasolini sceglie per la prima volta una grande attrice, dotata di una maschera ormai leggendaria, Anna Magnani. Farà lo stesso per il successivo La ricotta (1963), episodio di Ro.Go.Pa.G. (il titolo è un acronimo che deriva dalle iniziali dei diversi registi, ognuno autore di un episodio del film: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti). Qui Pasolini attribuisce a Orson Welles, il grande attore e regista statunitense, il ruolo di un regista estetizzante perso nei tableaux vivants delle deposizioni di Pontormo e Rosso Fiorentino, cioè di due grandi manieristi: un’identità di artista avulso dalla realtà che Pasolini rifiuta per sé, mentre il vero protagonista del film è un personaggio secondario dal nome emblematico di Stracci, che soltanto morendo in croce come un povero Cristo, a causa di una indigestione (sempre vissuto negli stenti e tormentato per tutta la vita dalla fame, per la prima volta nella sua vita ha perfino troppo da mangiare), rivelerà alla troupe e al mondo che “anche lui era vivo”. La realtà in La ricotta è ancora in bianco e nero, mentre l’artificialità dei tableaux vivants e della natura morta dei titoli di testa ha i cromatismi accesi della pittura manierista. Pasolini pagherà cara la denuncia del fariseismo e della mercificazione della religione che La ricotta non tanto implicitamente racchiude: il film subirà un assurdo processo (una moviola venne trasportata nell’aula del tribunale) e si concluderà con una condanna per vilipendio della religione (nel 1967 la Corte di Cassazione dichiarerà il reato “estinto per amnistia”).

Dalla sperimentazione de "La Rabbia" all’umorismo lunare di Totò

Nel 1963, lo stesso anno dello scandalo de La ricotta, Pasolini sperimentò nuove forme di cinema: selezionò alcune sequenze da una serie di cinegiornali e le rimontò, imprimendovi un senso diverso da quello originario, unendole ad altri filmati d’archivio, a brani di film, a citazioni di quadri e a fotografie. Nacque così La rabbia, un “poema cinematografico” commentato in poesia (dal grande scrittore Giorgio Bassani) e in prosa (da Renato Guttuso, famoso pittore anch’egli amico di Pasolini), dove ripercorre i primi quindici anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale denunciando la restaurazione capitalistica, l’avvento della tecnocrazia, il trionfo della società di massa ed esaltando la decolonizzazione dell’Africa e la liberazione di Cuba e dell’Algeria. Il produttore de La rabbia però ebbe l’infelice idea di abbinare il poema per immagini di Pasolini (che dovette anche apportare numerosi tagli) a un rozzo e sconclusionato pamphlet satirico di Giovannino Guareschi, il celebre autore dei racconti umoristici su Peppone e Don Camillo. Soltanto l’insuccesso del film fece desistere il poeta-regista dal togliere la propria firma a un film che, in quell’abbinamento, finì col disconoscere (molti anni più tardi, nel 2008, Giuseppe Bertolucci, Tatti Sanguineti e la Cineteca di Bologna restituiranno a La rabbia una forma che si avvicina alla concezione originaria, recuperando i cinegiornali scelti da Pasolini e realizzando un’ipotesi di montaggio rispettoso del suo disegno originario).

Un altro significativo “esperimento” cinematografico è Comizi d’amore (girato nel 1963 durante i sopralluoghi in Italia per Il Vangelo secondo Matteo), un film-saggio antropologico dove lo stesso Pasolini viaggia in Italia da nord a sud per sollecitare uomini e donne anonimi di ogni età e classe sociale a rispondere a domande sul sesso, sulla vita coniugale e sui mutamenti della società. Comizi d’amore è percorso dalla volontà di confrontarsi direttamente con il corpo sociale del paese nel pieno delle trasformazioni che sta subendo, in una forma libera, al di là di un progetto prestabilito (che pure esisteva).

Costretto a rinunciare – proprio a causa del processo contro La ricotta – al bellissimo progetto ‘africano’ di Il padre selvaggio, un film che non realizzerà mai, Pasolini intraprende un viaggio in Terrasanta per visitare i luoghi reali della vita e della passione di Cristo. Ne nasce un breve film, Sopralluoghi in Palestina per “Il Vangelo secondo Matteo”, che viene girato nell’estate del 1963 ma il cui commento viene aggiunto dall’autore soltanto nel 1965, durante quello che sarà il montaggio definitivo del film. Nel corso del viaggio, la constatazione del grado di modernizzazione avanzata di Israele e della Palestina rafforza Pasolini in una sua precedente idea: girare Il Vangelo secondo Matteo nelle terre abbandonate e povere del meridione italiano, in Puglia, Calabria e Basilicata (con qualche scena nel Lazio). Il film venne realizzato nel 1964 e ottenne l’avvallo della Pro Civitate Christiana di Assisi. Tale avvallo si fonda sul lavoro filologico di interpretazione del Vangelo di Matteo che Pasolini compì insieme allo studioso di testi sacri Andrea Carraro per essere fedele il più possibile alla lettera del testo evangelico, anche se poi in realtà nelle scene senza dialoghi Pasolini insinua anche degli elementi di interpretazione personale. E allora ecco che la predicazione di Cristo è calata nella realtà concreta dei poveri, degli emarginati e degli oppressi, mentre la dimensione sovrannaturale e miracolistica è ridotta e acquistano ampio respiro le invettive di Gesù contro i farisei. La predicazione e la passione di Cristo sono raccontate da un autore non credente che si immedesima nello sguardo di un pubblico popolare credente, ma filtra la sua visione attraverso la tradizione pittorica religiosa, da Piero della Francesca a El Greco. Se il tessuto figurativo del film evoca con originalità la grande pittura quattrocentesca, la colonna musicale presenta un’estrosa partitura all’insegna della “contaminazione”, che va da Bach e Mozart alla Missa luba congolese e ai canti rivoluzionari russi. Come tutti i film pasoliniani, anche il suo Vangelo è segnato dalla pregnanza espressiva di volti autentici, mescolati a quelli di familiari e amici dell’autore (la madre Susanna nel ruolo di Maria da vecchia, la cugina Graziella, Enzo Siciliano, Natalia Ginzburg e altri). Pasolini ha voluto qui sottolineare il carattere rivoluzionario di Cristo, la sua vicinanza ai poveri, agli ultimi, agli oppressi, evidenziando quindi implicitamente i punti ideali di contatto con il marxismo. Si fa strada nel film uno degli argomenti polemici più tipici dell’autore: nella contrapposizione di Cristo ai farisei si nasconde un’allusione alle polemiche dello stesso Pasolini contro la borghesia e la piccola borghesia.

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Il Vangelo secondo Matteo rappresenta la consacrazione internazionale di Pasolini cineasta. Tuttavia nel film successivo l’autore muta di nuovo forma narrativa. Per Uccellacci e uccellini (1966) adotta infatti un andamento picaresco e concepisce il film come una favola sulla crisi dell’ideologia, dove all’interno di un racconto ambientato nel cuore degli anni Sessanta ne è incastonato un altro sulla predicazione francescana ai falchi e ai passerotti, che si svolge nel Medioevo. Dopo Mamma Roma, Uccellacci e uccellini ritorna – confermandone la rilevanza – sul tema della trasformazione in piccola borghesia del sottoproletariato romano (infatti il personaggio di Totò Innocenti, il padre protagonista, ha una piccola proprietà e infierisce contro una famiglia di contadini suoi debitori). Di questo processo, che ormai sta diventando inarrestabile, fa le spese un intellettuale, che è il terzo personaggio del film oltre al padre Totò Innocenti e al figlio Ninetto, e che, come nelle favole, ha sembianze di un corvo e finisce per essere mangiato dai due sottoproletari suoi compagni di viaggio. In questo personaggio del corvo Pasolini adombra se stesso. Un altro aspetto rilevante di Uccellacci e uccellini è la nascita del sodalizio con un grande attore teatrale e cinematografico napoletano, Totò, che era ormai alla fine della carriera ed era ansioso di realizzare un film d’autore. Totò fu talmente felice dell’incontro artistico con Pasolini da stringere con lui uno stretto sodalizio, interrotto nel 1967 dalla morte prematura dell’attore.

La novità di Uccellacci e uccellini è l’uso, qui per la prima volta esteso a tutta la pellicola, di quel registro che può essere definito “umorismo lunare”, già sperimentato ne La ricotta limitatamente a qualche sequenza. Questo effetto si crea anche in virtù della scelta degli attori protagonisti. A Totò, infatti, Pasolini affianca Ninetto Davoli, un ragazzo che aveva scoperto praticamente per caso e che, recitando in numerose pellicole successive, diventerà l’emblema stesso della vitalità giovanile e popolare nel cinema del poeta-regista. Totò e Ninetto, il vecchio e il giovane, una coppia inaspettatamente riuscita, saranno protagonisti di altri due brevi film, La terra vista dalla luna (1966, episodio di Le streghe) e Che cosa sono le nuvole? (1967, episodio di Capriccio all’italiana), che avrebbero dovuto far parte di un unico film in più episodi, tutti di Pasolini. La morte di Totò impedì la realizzazione del film e i frammenti vennero poi destinati ad altri film dove vengono accostati, in verità in maniera non molto coerente, ad altri episodi.

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Primo film interamente a colori realizzato da Pasolini, La terra vista dalla luna si ispira ai cromatismi e all’essenzialità dei fumetti (l’autore ne disegnò egli stesso un vivace storyboard) e racconta con echi surreali la condizione umana di una famiglia di baraccati, per i quali “essere morti o essere vivi è la stessa cosa”. In Che cosa sono le nuvole? la scena è invece un piccolo teatro di marionette dove viene rappresentata una versione popolare e ridotta dell’Otello shakespeariano. Le marionette, come gli esseri umani, sono chiuse in una dimensione artificiale e separata dalla realtà, prigioniere del ruolo che devono recitare in ogni replica, anche se questo ruolo non corrisponde affatto alla loro verità, alla loro realtà. Nel film, soltanto morendo accedono alla conoscenza del reale, scoprendo la bellezza delle nuvole.

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1 Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Guanda, Parma 1992.

2 Ivi.

3 Pier Paolo Pasolini, Illusioni storiche e realtà nell'opera di Longhi, «Tempo», 18 gennaio 1974, poi in Id. Descrizioni di descrizioni, a cura di Graziella Chiarcossi, Einaudi, Torino 1979.

4 Pier Paolo Pasolini, Il giovine della primavera, in Per il cinema, vol. II, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, Mondadori, Milano 2001.