Se Pasolini non ha risparmiato critiche e attacchi alla società del suo tempo – esprimendoli apertamente in saggi e articoli pubblicistici, e implicitamente in molti suoi film e documentari – nemmeno i suoi contemporanei sono stati teneri con lui. Una parte del mondo della cultura italiana ha preso le sue parti e gli è stata solidale fino alla fine, ma una gran parte del pubblico è stata spesso sconcertata dalle sue opere, soprattutto cinematografiche. In particolare, Pasolini ha suscitato la reazione delle autorità statali che avevano il potere di sottoporre le sue creazioni e le sue azioni a una verifica della loro compatibilità con la morale pubblica e che lo sottoposero a ben 33 processi giudiziari.
Silvia De Laude, co-curatrice dell’edizione delle opere di Pasolini in 10 volumi, pubblicata dall’editore Mondadori, ripercorre in questo podcast le disavventure giudiziarie di Pasolini, l’intellettuale più contestatore e contestato di tutto il Novecento italiano.
Silvia De Laude
L’argomento di questa conversazione, Pasolini e la censura, è sterminato. Non esiste nel Novecento italiano nessuno scrittore o regista contro il quale la censura si sia esercitata con tanto accanimento – un accanimento direttamente proporzionale alla sua inesausta esposizione di sé. Da subito, poco più che ragazzo, Pasolini si è trovato ad avere i fucili puntati addosso – a partire dallo “scandalo di Ramuscello” (l’accusa, cioè, di atti osceni in luogo pubblico, con minorenni, che gli era costato la perdita del posto di insegnante e l’espulsione dal Partito Comunista, nel quale militava con un ruolo importante a livello locale). A Casarsa e in famiglia, con il padre, il clima per lui era diventato insopportabile. Lo “scandalo” lo aveva costretto a lasciare il Friuli per Roma, con la madre, in treno, di nascosto: una vera fuga, che taglierà la sua vita in due.
Da allora, Pasolini non ha mai cessato di essere nel mirino. Attaccato, spesso, da tutte le parti – da destra e da sinistra; e dalla censura, sempre. Una censura occhiuta, prevenuta, oggettivamente persecutoria, e incorsa in svarioni spesso madornali. Il più clamoroso forse riguarda La ricotta, il lungometraggio del 1963, uscito all’interno del film a episodi RoGoPaG (acronimo dei nomi dei quattro registi coinvolti, Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti). Nell’episodio di Pasolini, La ricotta appunto, un regista cinico e decadente, interpretato da Orson Welles, cerca di mettere in scena fra incidenti di ogni tipo la Passione di Cristo in forma di colossal estetizzante, e non si accorge di una vera Passione di un vero ‘povero Cristo’ che avviene sul set, dove Stracci, la comparsa che fa la parte del Buon Ladrone, muore sulla croce dopo esser stato abboffato e deriso dalla troupe. Testimonianza di un autentico tormento religioso, e quasi atto auto-esorcistico avvertito come necessario, a parte subiecti, per affrontare faccia a faccia (proprio paolinamente, facie ad faciem) il mistero della morte di Dio, il lungometraggio era costato a Pasolini una condanna a quattro mesi di reclusione con la condizionale – mentre ha ragione Alessandro Zaccuri, che ha definito La ricotta, pesando molto le parole, una “vistosa tappa di avvicinamento alla grammatica essenziale del Vangelo secondo Matteo”: “Come se, non potendo o non volendo mostrare l’agonia del Verbo incarnato, lo sguardo del poeta-regista si soffermasse sullo strazio di Stracci, che è solo carne: che è solo creatura. Anche in questo il cristianesimo di Pasolini rimane sempre meno eretico del suo empirismo, per non parlare del suo marxismo”.
La proiezione del film del 1° marzo 1963, al cinema Corso di Roma, era stata interrotta da un decreto di sequestro firmato da Giuseppe Di Gennaro, sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma. L’incriminazione era per “vilipendio della religione di stato”. Il processo era stato celebrato per direttissima, e Di Gennaro, appassionato di cinema, aveva analizzato le scene incriminate in moviola (non si era mai fatto prima di allora, in un’aula di tribunale), muovendo al lungometraggio accuse tanto circostanziate quanto fuori bersaglio, alle quali Pasolini aveva risposto con un promemoria in 21 punti, di cui si conserva il dattiloscritto al Gabinetto Vieusseux di Firenze. Non era servito a niente. Il verdetto era stato di condanna (quattro mesi di reclusione con la condizionale, condanna ribadita dalla Corte d’Appello e poi caduta in prescrizione, nelle more processuali, fermo restando il giudizio di colpevolezza).
Parlare di una persecuzione da parte della censura non è un pegno pagato ad uno degli aspetti dell’ingombrante santino-Pasolini, quello del “Poeta perseguitato”. Per una volta, è proprio la verità. L’accanimento della censura esiste, ed è proporzionale, dicevo, ad una ostensione di sé che assume a volte tratti sacrificali, o cristologici. Sembra che quella ad esporsi, da parte di Pasolini, e ad alzare continuamente l’asticella del livello di provocazione, a costo di ricevere colpi sempre più duri, sia una specie di coazione, non esente da masochismo. Questo aspetto ‘masochista’ (e non sto facendo dello psicologismo, è un elemento che davvero serve a capire le cose) è tra i motivi per cui la censura, l’essere perseguitato dalla censura, diventa anche un tema ricorrente nell’opera. Esiste, cioè, un’oggettiva persecuzione dell’opera di Pasolini da parte della censura, ma questa persecuzione entra nell’opera con prepotenza.
Nella poesia La ricerca di una casa, in Poesia in forma di rosa (quella che comincia col verso “Ricerco una casa per la mia sepoltura”), il poeta si presenta come1
Uno a cui la Questura non concede
⏤
il passaporto – e, nello stesso tempo
il giornale che dovrebbe essere la sede
della sua vita vera, non dà credito
a dei suoi versi e glieli censura
è quello che si dice un uomo senza fede,
che non si conforma e non abiura.
La poesia è del gennaio del 1962, quando Pasolini, in effetti, aveva deciso di lasciare la casa di via Giacinto Carini, nello stesso palazzo dove viveva l’amico Attilio Bertolucci (poeta e padre dei registi Bernardo e Giuseppe), per un’altra (dopo diversi sopralluoghi, avrebbe scelto curiosamente l’architettura fascista dell’EUR per l’‘abitazione’ che sarebbe stata poi, davvero, la sua ultima, in via Eufrate, dove è ritratto in tante foto con la madre Susanna). Gli attacchi contro di lui sono stati così tanti che è difficile, a volte, stabilire con certezza quale sia l’episodio di censura a cui il testo fa riferimento. Qui comunque si allude certo allo scandalo della famosa intemerata in versi contro Pio XII, A un papa, negli epigrammi di Umiliato e offeso (poi nella Religione del mio tempo). Valentino Bompiani, che aveva rilevato da poco la rivista “Officina”, ne aveva interrotto bruscamente la pubblicazione, dopo un'ammonizione da parte delle gerarchie ecclesiastiche che aveva diviso la redazione sul modo di reagire, scontrandosi per mesi. Ma mai Pasolini si tira indietro dalle polemiche. All’epigramma A un papa seguirà a ruota, nei Nuovi epigrammi, l’attacco ai nobili “neri” del romano Circolo della Caccia, che insorgendo contro l’invettiva di Umiliato e offeso avevano contribuito ad intimidire il nuovo editore della rivista a cui Pasolini teneva così tanto (questo il testo del nuovo epigramma, Ai nobili del Circolo della caccia, di due soli versi: “Non siete mai esistiti, vecchi pecoroni papalini: / ora un po’ esistete, perché un po’ esiste Pasolini” (Poesie 2003, I, p. 1025).
Non era ancora iniziata, a quell’altezza, l’odissea giudiziaria della Ricotta, che si sarebbe protratta per anni e sarebbe stata, per Pasolini, la più dolorosa: un po’ per il totale travisamento delle sue intenzioni e per la disperazione della madre, un po’ perché lo scandalo suscitato dalla Ricotta aveva dissuaso Alfredo Bini, produttore di RoBoPaG, e già del suo primo film, Accattone, a produrre il film successivo di Pasolini, Il padre selvaggio (il dolore mai sopito per la mancata realizzazione del film, di cui nel ’75 pubblicherà da Einaudi, la sceneggiatura, trova spazio nella poesia E l’Africa?, del ’67, dove Bini incarna una figura di autorità punitiva, e improvvisamente il poeta vede in lui il padre morto una decina d’anni prima, che “come un cinghiale” va e viene dai suoi sogni).
Un processo per una sua opera, comunque, c’era già stato, e proprio per il suo primo romanzo, Ragazzi di vita, uscito da Garzanti nel 1955. Il romanzo era stato segnalato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri alla Procura di Milano, per il suo carattere osceno. L’accusa, estesa all’editore Livio Garzanti, era stata in quel caso di pornografia (per l’esattezza, “pubblicazione di carattere pornografico”), anche se i passi segnalati dall’accusa, con tanto di numero di pagina, sono davvero, se li si va a rivedere, tutt’altro che pornografici, anche per i tempi. Si dirà che in quegli anni cose del genere potevano capitare. Erano ancora in vigore norme risalenti al regime fascista, e non era possibile consultare nelle biblioteche pubbliche opere “maledette” di André Gide, Curzio Malaparte, e anche testi psicanalitici sulla vita sessuale. Le opere di Alberto Moravia, nel 1956, erano state messe all’indice dal Sant’Uffizio. Di oltraggio al pudore si era parlato per L’amante di Lady Chatterley di Lawrence, l’Ulisse di Joyce, ma anche Cioccolata a colazione di Pamela Moore, Il muro di Sartre, Il deserto del sesso di Leonida Repaci e L’Arialda di Giovanni Testori. Un processo come quello contro Ragazzi di vita, però, non si era visto mai. Ed è istruttivo rivedere le carte del processo, consultabili in copia anche al Fondo Pasolini della Cineteca di Bologna2. L’impressione è che l’intento fosse davvero di colpire il romanzo nel suo insieme, e per motivi ideologici non molto diversi, paradossalmente, da quelli che avevano animato le stroncature al romanzo venute da sinistra (al di là della trama il “contenuto reale” del libro, aveva sentenziato il critico marxista Carlo Salinari, era – cito – un “gusto morboso dello sporco, dell’abbietto, dello scomposto e del torbido”). Il processo si era celebrato nel 1956: era un momento particolare in Italia. Era stato appena eletto un nuovo presidente della Repubblica, Antonio Segni, e il Ministero degli Interni sembra aver voluto dare da subito un segnale di forza. Pasolini, con la sua vita e i suoi precedenti giudiziari (i “fatti di Ramuscello”, e un incidente analogo avvenuto a Chioggia, che aveva coinvolto con lui anche il cugino Nico Naldini e lo scrittore Giovanni Comisso) era un perfetto capro espiatorio, inarrivabile per carica suggestiva.
Il processo contro Ragazzi di vita, fra l’altro, Garzanti aveva fatto di tutto per evitarlo, costringendo Pasolini a una capillare e invasiva operazione di “autocensura coatta”. La storia (la riassumo qui molto brevemente) era andata così: Garzanti, dopo averne letto su “Paragone” due anticipazioni, aveva opzionato e fortemente voluto il romanzo, al punto di assicurare all’autore allora esordiente uno stipendio mensile, per potersi dedicare con tranquillità al lavoro. Quando lo aveva letto per la prima volta finito, però, già in bozze, non gli era piaciuto affatto – o meglio, aveva intuito il pericolo. Il suo era stato un vero ultimatum: o si tagliavano interi episodi, si attenuavano alcune situazioni e si espungevano le espressioni più volgari, o lui, Garzanti, quel libro, non lo avrebbe pubblicato mai. Pasolini aveva accettato di fare il censore di se stesso, ma con vera angoscia. Mandando all’editore il dattiloscritto, credeva di aver chiuso i conti con quel romanzo che aveva cominciato a scrivere appena arrivato a Roma, cinque anni prima, e che aveva fatto una fatica enorme a prender forma, sempre in lotta con una spinta centrifuga che lo portava a disperdersi in mille episodi, o siparietti, o “pezzi”. (“Stà a sentì ‘sto pezzo” lo dice, a un certo punto, il Riccetto, introducendo una delle sue “sbrasate”; e “pezzo”, per Pasolini, era una specie di termine tecnico, per indicare l’unità di misura dei parlanti romani, specie se giovani; lo ha scritto in un saggio del ’57, Il gergo a Roma3). Dello stato d’animo con cui aveva affrontato i tagli e le modifiche richieste dall’editore, dà una testimonianza inequivoca l’epistolario. Già il 9 maggio del 1955, Pasolini aveva scritto all’amico Vittorio Sereni:
sono vari giorni che di giorno in giorno rimando lo scriverti. Sai come succede. D’altra parte sono vissuto in una specie di incubo (e ancora non ne sono del tutto fuori): Garzanti all’ultimo momento è stato preso da scrupoli moralistici, e si è smontato. Così mi trovo con delle bozze mezze morte tra le mani, da correggere e da castrare. Una vera disperazione, credo di non essermi trovato mai in un più brutto frangente letterario [...].
⏤
Lo stesso giorno, con gli amici di “Officina”, aveva rincarato la dose: “una serie di giorni atroci”; “sono dimagrito cinque chili”; “uno dei periodi più brutti della mia vita”. Dal confronto fra il dattiloscritto e il testo dato alle stampe, il Ragazzi di vita prima della censura (o “auto-censura coatta”) risulta un romanzo molto più espressionista e più “sporco” di quello che conosciamo: meno letterario, e molto più immediato, “magnetofonico” e violento. Gli interventi introdotti in bozze cambiano la temperatura del romanzo, e lo fanno diventare, in un certo senso, un altro libro. Bisogna prenderne atto: il Ragazzi di vita che conosciamo, quello che Gianfranco Contini è parso un “oggetto formidabile”, che Giuseppe Ungaretti e Carlo Bo hanno difeso durante il processo, eccetera eccetera, non è il libro che Pasolini avrebbe voluto pubblicare.
A dare a Pasolini la notizia del processo da celebrarsi era stato Attilio Bertolucci, e l’episodio dell’annuncio è rievocato nella poesia Récit, delle Ceneri di Gramsci, il cui titolo, secondo una persuasiva lettura del critico Giacomo Magrini, consente di identificare l’amico, nel testo, col messaggero delle tragedie di Racine, il cui ruolo era stato indagato da Leo Spitzer nel saggio sul “récit de Théramène” della Phèdre (Pasolini lo aveva letto da poco, e ne era rimasto folgorato). Chiarissimo il passaggio successivo: come Théramène racconta nella Phèdre una sventura spaventosa, addirittura indicibile, così una sventura addirittura indicibile è lo strazio provocato dalla censura.
Nel poemetto autobiografico Poeta delle Ceneri, del 1966-67, apparso postumo, alla censura e alla persecuzione giudiziaria sono dedicati versi e versi. Lì, Pasolini si concentra su alcuni siparietti assurdi – c’era solo l’imbarazzo della scelta: chi volesse farsi un’idea della macchina persecutoria a volte delirante messa in campo contro Pasolini per via giudiziaria, può trovare documentazione sui 33 processi che ha subito nel libro a cura di Laura Betti Pasolini. Cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, uscito da Garzanti nel 1977. Garzanti, fra l’altro, aveva progettato un “libretto” da intitolare La moralità di Pasolini fin dal 1962; l’idea era di raccogliere, insieme ad “altre cose già scritte”, interventi come la lettera di Ungaretti presentata dalla difesa nel processo contro Ragazzi di vita. Il progetto, poi, non era andato in porto. Sarebbe stato un “libretto” singolare, un unicum credo nella letteratura italiana del Novecento – anche perché per nessun altro scrittore sarebbe venuto in mente a un editore di allestirne uno del genere.
In Poeta delle Ceneri non è citato il processo contro Ragazzi di vita. Sono ricordati, però, altri episodi. Uno, marginale ma notevole come sintomo della follia collettiva che il nome di Pasolini aveva il potere di risvegliare, riguarda Accattone. Il film era stato presentato nel settembre del 1961 alla 22a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. La prima nazionale era stata al cinema Corso di Roma, ed era successo di tutto: uno scontro fisico fra sostenitori e detrattori del film (tra di loro, alcuni neofascisti noti alla polizia); un lancio contro lo schermo di bombe carta, finocchi e bottiglie d'inchiostro (Pasolini era già marchiato all’epoca come scrittore maledetto, e lo stesso trailer del film puntava il riflettore sull’attività letteraria del neo-regista, con inquadrature di copertine e pagine dei suoi libri). La proiezione era stata interrotta per più di un’ora. Pochi giorni dopo, Accattone era stato posto sotto sequestro per ordine dell’allora sottosegretario del Ministero della Cultura e dello Spettacolo, Renzo Helfer. Sarebbero stati necessari dei tagli, per ottenere di rimetterlo in circolazione, ma Pasolini racconta nel poemetto un’altra disavventura. Un certo Salvatore Pagliuca, tra i maggiorenti della DC lucana, si era sentito offeso dal fatto che un personaggio del film avesse un nome quasi identico al suo (Salvatore Pagliuco); lo aveva considerato un attacco ad personam, intenzionale e lesivo della sua dignità; il giudice gli aveva dato ragione, e al produttore del film, Alfredo Bini, era toccato di risarcirlo con milioni di danni.
Il poemetto Poeta delle ceneri è del ’67-’68 – sono passati degli anni, sarebbe successo di peggio e Pasolini sembra prenderla (amaramente) sul ridere, ma a caldo aveva fatto sentire, in toni drammatici, la sua voce, pubblicando sull’“Avanti” un intervento in difesa del film, nel quale si legge fra l’altro:
La lotta – dico la lotta di argomenti e di allusioni – che si è accesa, a distanza, tra me e Helfer, è assolutamente impari. Io credo con tutta l'anima a quello che faccio e che dico – che faccio e dico proprio nell'atto del fare e del dire – e perciò sono vulnerabile, scoperto, esasperato. Helfer non crede a quello che fa e che dice, perché quello che fa e che dice non consiste, realmente, nell'atto concreto e immediato del fare e del dire e perciò è invulnerabile, riparato, freddo. Io sono uno scrittore e lui è un uomo di governo: a me non interessa di perdere o di guadagnare nulla, perché il mio interesse è quello della poesia, non è cioè un interesse pratico. A lui invece il perdere o il guadagnare interessa fino in fondo, perché il suo interesse è totalmente pratico, un atto di potere politico. Io, se fossi insincero, non sarei uno scrittore. Helfer, se fosse sincero, non sarebbe un censore nello stato attuale dell'organo censorio. I nostri argomenti sono di natura totalmente diversa: un luogo franco, dove, realmente scontrarsi, non lo potremo mai trovare.
⏤
E ancora:
Chi si getta allo sbaraglio, con passione, con dolore, senza curarsi della propria incolumità, è destinato a perdere. Anche se la sua sconfitta, è, intimamente, una vittoria. Helfer sa benissimo che ho ragione io. E io so che lo sa. Questo dà esasperazione a me, sicurezza a lui. Ciò nondimeno, non posso esimermi dal lottare. Un rassegnato silenzio, da parte mia, sarebbe una colpa. Helfer mi ha messo davanti agli occhi un mulino a vento, e io non posso che buttarmici addosso alla disperata.
⏤
“Gettarsi allo sbaraglio”, “buttarsi addosso alla disperata” contro qualcosa che ferisce, a costo di schiantarsi o di bruciarsi, è fra le mosse più tipiche di Pasolini, e del suo modo di stare al mondo.
Della complessa odissea della Ricotta, Pasolini non affronta nel poemetto l’accusa di “vilipendio della religione di stato”, ma si concentra su una causa minore, intentata dai due produttori per i quali aveva scritto inizialmente, nella primavera del ’62, il primo trattamento del lungometraggio. I due (Giuseppe Amato e Roberto Amoroso), avevano in mente un altro film a episodi (negli anni Sessanta erano di moda, quello che avevano in mente Amato e Amoroso avrebbe dovuto intitolarsi La vita è bella, come poi il film di Vincenzo Cerami e Roberto Benigni). Il progetto era naufragato, e il soggetto di Pasolini era stato rilevato da Alfredo Bini. Dopo l’accusa di blasfemia mossa alla Ricotta, sfruttando il clamore, uno dei due, Amoroso, era tornato a farsi vivo (Amato nel frattempo era morto): se il loro film non si era realizzato, era colpa del sacrilego Pasolini e di nient’altro. Il settimanale di destra “Lo Specchio” aveva pubblicato integralmente l’atto di citazione di Amoroso, accompagnato da questo trafiletto:
La ricotta appare solo un pretesto per consentire all’autore d’esprimere la sua vocazione sacrilega; che, sarà opportuno non dimenticarlo, data fin dai tempi del noto epigramma su Pio XII […]. Amoroso non era disposto a buttare all’aria dei milioni per consentire a Pasolini di proseguire la sua polemica con la Chiesa, la borghesia italiana, i capitalisti, gli angeli e i santi.
⏤
Titolo dell’articolo: Pasolini, bestemmia da 8 milioni.
I riferimenti alla censura nelle poesie, e diversi interventi pubblici dimostrano come Pasolini abbia risposto al desiderio di farlo tacere sempre, appunto, esponendosi, fuori e dentro l’opera. La parte che gli è toccata, e che insieme rivendica, è quella del poeta perseguitato, che reagisce con ogni mezzo, anche prestando il fianco ad altri attacchi. Nel saggio che apre l’edizione dei “Meridiani,” L’opera rimasta sola, l’autore, il critico e romanziere Walter Siti, può sembrare sulle prime cinico, ma coglie nel segno: “il Poeta [con la P maiuscola] non può permettersi la libertà del silenzio […] Non ha mai tempo, ma per intervenire e dire quello che pensa, quello che ritiene sia giusto, il tempo lo trova sempre”. Quando il Pubblico Ministero Pasquale Pedote, nel ’62, lo aveva trattato da cattivo maestro, nella requisitoria di un processo per ubriachezza e oltraggio alle forze dell’ordine contro il protagonista di Accattone Franco Citti, Pasolini gli aveva indirizzato una lettera:
Sto facendo un film, sto scrivendo dei versi: non ho tempo di preparare arringhe, non ho tempo di consumarmi in polemiche inutili […]. Tuttavia la questione è troppo vasta e importante: nell’aula di un tribunale si accusa uno scrittore di corresponsabilità nei reati di giovani visti come campioni di una generazione. Non posso non difendermi. Una volta, avrei sfidato a duello il signor Pedote per le sue denigratorie allusioni alle mie opere: e sarebbe stato inutile, perché il Pedote non è un io, è un noi. Lo sfido a un dibattito, ecco tutto. Se egli si sente di sostenere e approfondire gli argomenti – che ha sostenuto come Pubblico Ministero – come cittadino e uomo di cultura, io sono disposto a controbatterlo pubblicamente. È una soddisfazione, civile, mi sembra, degna di uomini perbene, che io ho il diritto di chiedere fuori dalle aule del tribunale ed egli dovrebbe avere il dovere di concedermi. Non voglio che il processo contro Franco Citti si concluda con una vittoria fascista.
⏤
L’anno dopo darà il nome “Pedoti”, nella sceneggiatura della Ricotta, al giornalista ridicolo che intervista il Regista-Orson Welles. La censura non glielo farà passare. Pedoti diventerà “Gianluigi”, con ogni probabilità un’altra punzecchiatura, indirizzata al critico cinematografico Gianluigi Rondi, che aveva stroncato Accattone.
Silenzio, mai. Invece di ‘lasciar parlare i testi’, continua Siti, “come l’orgoglio, la pigrizia e la buona educazione vorrebbero”, li difende come un leone ferito. Quando escono in pubblico, ribatte accanitamente ai recensori. Dopo un articolo negativo di Paolo Milano, intitola Alla macchina da scrivere per “Teorema” un abbozzo di risposta, con un cappello introduttivo in cui ben sette aggettivi esorcizzano il luogo comune del silenzio dello scrittore:
Chissà perché c’è, di fatto, una ferrea legge sul fair-play tra scrittore e critico, che vuole lo scrittore zitto, assente, volto altrove, inesistente, remoto, eremitico e muto come un pesce di fronte alle recensioni “sfavorevoli” del critico, che invece è presente, attento, bene esistente, incombente e pieno di parlantina. Niente affatto: questa regola del fair-play non mi pare giusta. È ipocrita, prima di tutto, e poi si richiama a quella “dignità del doppiopetto” che comprende in un paterno abbraccio tutta la nostra cara borghesia, dall’«Espresso» a De Lorenzo. Ho pubblicato un libro, Teorema, e la prima recensione uscita è stata sfavorevole: mi sembra molto più dignitoso difendere una mia opera che non difenderla. I critici, dopotutto, non sono i posteri. Non ho rispetto per i posteri, figuriamoci per i critici.
⏤
Le recensioni dei critici a Trasumanar e organizzar non lo avevano soddisfatto. Cos’altro fare se non scriverne una lui stesso? (è il saggio uscito sul quotidiano “Il giorno” col titolo Pasolini recensisce Pasolini).
Tra le carte del Vieusseux di Firenze, preparando l’edizione delle opere complete, abbiamo trovato decine di “lettere aperte” non inviate, oltre a quelle già numerose effettivamente spedite ai giornali. Ad accusarlo di mettere il becco dappertutto, non sono solo i nemici o i malevoli, ma “anche chi in fondo gli vuol bene”: «Fortini, per esempio, e Calvino, che certamente pensa a lui quando inventa la sua teoria ‘del mordersi la lingua’. Pare a tutti che dovrebbe fermarsi a riflettere, dato che non sempre si può capire tutto subito, e uno rischia poi di pentirsi di quello che ha detto»4.
Non aveva potuto “fermarsi a riflettere”, né “gettarsi allo sbaraglio”, “alla disperata”, per difendere il suo ultimo film, Salò, apparso postumo: lì, ci sarebbe stato davvero motivo di indignarsi. Il celebre psicanalista Cesare Musatti – uno che a suo modo “gli voleva bene”, e si era prestato a farsi intervistare in materia di sessualità e tabù sessuali nel film del ’64 Comizi d’amore, insieme ad Alberto Moravia e Giuseppe Ungaretti – era arrivato ad attaccarlo come se la vicenda portata sullo schermo fosse solo il frutto di una patologica pulsione di morte, dimenticando perfino di citare la fonte letteraria del film, il marchese de Sade delle Centoventi giornate di Sodoma. Sulfureo quanto si vuole ma il film, giusto per la cronaca, era stato sequestrato dopo un mese di programmazione, e tornerà a circolare solo nel 1977, due anni dopo l’assassinio di Pasolini.
-
1 Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, 2 voll., vol. I, Mondadori, Milano 2003, pp. 1104-1105. D’ora in poi il riferimento a questa edizione verrà dato nel testo con l’indicazione Poesie 2003.
2 Cfr. Silvia De Laude, I due Pasolini, Carocci, Roma 2018.
3 Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull'arte, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., Mondadori, Milano 1998, vol. I, pp. 695-698.
4 Walter Siti, Tracce scritte di un'opera vivente, in Pier Paolo Pasolini, Romanzi e racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, 2 voll., Mondadori, Milano 1998, vol. I.