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Il cinema di Pier Paolo Pasolini. II
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Il cinema di Pier Paolo Pasolini. II
Roberto Chiesi, critico cinematografico e responsabile del Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna, ci accompagna in un’esplorazione del cinema pasoliniano: in questo podcast illustra l’attività di Pasolini regista da "Edipo re" a "Salò" e oltre.

Dal mito greco alla cosiddetta "Trilogia della vita", per finire con "Salò o le centoventi giornate di Sodoma", l’ultimo suo film, il linguaggio filmico di Pasolini si fa sempre più provocatorio e ardito: "Teorema" e "Salò", com'è noto, vennero sequestrati per oscenità. Nonostante questo, l'impronta lasciata da Pasolini nel cinema italiano è fondamentale: parafrasando Bernardo Bertolucci, possiamo dire che Pasolini reinventa il linguaggio cinematografico perché è un uomo di lettere e di poesia, e guarda al cinema attraverso il filtro della pittura. Questo rinnovamento del linguaggio filmico lo porta a sperimentare diverse soluzioni, dalla rappresentazione realistica all'uso di immagini allegoriche e oniriche. 

Roberto Chiesi, critico cinematografico e responsabile del Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna, ci accompagna in questa esplorazione del cinema pasoliniano: in questo podcast illustra l’attività di Pasolini regista da "Edipo re" a "Salò" e oltre.

 

Roberto Chiesi

Nel 1967 Pasolini muta ancora registro e dopo avere teorizzato alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro un cinema di poesia, che contrappone al cinema di prosa e dove, proprio come nella poesia, predomina la soggettività dell’io (in questa fase immagina addirittura che tutto il cinema possa essere realizzato in questo modo) ­– reinventa l’Edipo Re di Sofocle in chiave onirica e autobiografica, calando la tragedia in un mondo barbarico (i costumi, che riproducono fogge sumere, azteche e orientali, sono opera di uno dei suoi più importanti collaboratori, Danilo Donati, che già lavorava con lui dai tempi de La ricotta) e in spazi desertici (gli esterni vengono girati in buona parte in Marocco). Anziché la ricostruzione della Grecia classica troviamo qui la ricreazione visionaria di un mondo barbarico. La tragedia è incorniciata da un prologo, ambientato nel Friuli dell’infanzia dell’autore, e da un epilogo, dove Edipo, ramingo e cieco, ritorna nella Bologna dove Pasolini è nato e infine nel “mare d’erba” delle sue origini di poeta in un Friuli ricostruito, “per analogia”, in Lombardia.

Edipo Re costituisce una reinvenzione della tragedia di Sofocle sotto numerosi punti di vista, che sono significativi per capire la libertà e la creatività con cui Pasolini si impadronisce dei testi classici quando decide di ispirarsi a uno di essi per un suo film. Nel suo Edipo Re Pasolini visualizza anche tutta quella parte che nella tragedia di Sofocle viene semplicemente evocata a partire dal momento in cui comincia la tragedia, cioè quando Edipo è già re di Tebe da qualche tempo e la città è sconvolta da un’epidemia di peste provocata proprio dalla presenza di Edipo come re della città e come marito, ovviamente inconsapevole, di sua madre Giocasta.

Invece Pasolini visualizza in Marocco, in una chiave visionaria e onirica, tutta la parte in cui Edipo viene salvato dalla decisione dell’uomo che doveva ucciderlo da bambino sul monte Citerone, e viene poi affidato a un pastore che lo porta a Polibo. Da quel momento viene adottato da Polibo e Merope, però è tormentato da strani sogni e per risolvere l’enigma di questi sogni si reca dall’oracolo di Delfi da cui apprende il suo terribile destino, cioè che assassinerà suo padre e si unirà a sua madre. E, pur cercando di allontanarsi dalla città di adozione, in realtà Edipo finirà in questo modo proprio per andare a Tebe, dove il suo destino si compirà.

Pasolini caratterizza in maniera diversa il personaggio del “figlio della fortuna”, cioè di Edipo, anche proprio per la scelta dell’attore. Sceglie infatti Franco Citti che aveva già interpretato Accattone e anche un altro personaggio di sfruttatore di donne, Carmine in Mamma Roma. Questa scelta è significativa perché appunto Franco Citti è un giovane che viene dalle borgate, un attore non professionista di formazione, fratello di Sergio Citti che era stato intermediario tra Pasolini e il mondo delle borgate, suo collaboratore fin dai tempi del romanzo Ragazzi di vita. Pasolini sceglie proprio la fisicità e il volto di Franco Citti perché vuole sottolineare il carattere irrazionale, viscerale del suo Edipo. Infatti, quando Edipo nel film di Pasolini si presenta di fronte alla Sfinge che terrorizza Tebe, non è risolvendo con intelligenza l’indovinello della sfinge che Edipo la vince ottenendo quindi il regno di Tebe, ma è rifiutandosi di ascoltare e di vedere la Sfinge e investendola, aggredendola, assalendola con violenza. Proprio in questo sta la diversità della visione pasoliniana rispetto al testo classico della tragedia.

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Alla tragedia greca Pasolini si ispirerà ancora nel 1969 per Medea, che è invece la tragedia della madre, della maga barbara (impersonata dalla grande cantante d’opera Maria Callas, nel suo unico ruolo cinematografico). Il film, ispirato alla tragedia di Euripide, è incentrato sulla figura della maga della Colchide, Medea, tradita da Giasone e incapace di integrarsi nel mondo della razionalità occidentale. Pasolini mostra nella prima parte del film la sua regressione alle crudeli pratiche magiche della Colchide, di cui Medea è originaria, anche in questo caso aggiungendo una parte inedita, nuova, ispirata dalla lettura di testi di antropologia sui riti arcaici. Il recupero da parte di Medea delle pratiche magiche scatena l’orrore: il sortilegio omicida contro Glauce – la nuova sposa di Giasone, la fanciulla per cui ha ripudiato Medea e contro cui Medea ricorre appunto alla magia crudele della sua terra d’origine – ma anche l’uccisione dei figli che Medea ha avuto dallo stesso Giasone, per vendicarsi di lui, e il fuoco con cui incendia la propria casa nella quiete di Corinto. Anche Medea, come Edipo Re, è un film il cui tessuto visivo e sonoro deriva da un geniale sincretismo di fogge, forme e musiche (nel film tratto da Sofocle ricorrono brani di musica popolare rumena e antica musica giapponese; in quello tratto da Euripide, motivi iraniani, tibetani e ancora giapponesi).

Fra il 1967 e il 1968 Pasolini intraprende anche un audace progetto che rimarrà incompiuto per ragioni legate alla produzione, Appunti per un poema sul Terzo mondo. Avrebbe dovuto comprendere una serie di film sui “sud” del mondo, ma il poeta-regista riesce a realizzarne soltanto due parti, Appunti per un film sull’India (1968), un film di mezz’ora che viene trasmesso dalla RAI, e Appunti per un’Orestiade africana (1970), girato tra il 1968 e 1970 in varie località dell’Africa.

Sono due film di assoluta libertà formale, due film-laboratorio, concepiti all’insegna del “non finito” michelangiolesco, dove Pasolini sperimenta le possibili forme da assegnare a un progetto di film sull’India e sull’Africa in piena decolonizzazione: sono film-diari, film-saggi antropologici. Infatti Pasolini si sofferma su dettagli che denotano i cambiamenti e i fenomeni che stanno mutando la cultura e la società nei paesi africani, in particolare per esempio le vetrine delle librerie, dove sono esposte pubblicazioni della Cina Comunista accanto a pubblicazioni statunitensi. Quindi si osserva addirittura un accostamento del modello comunista a quello capitalista. Per quanto riguarda l’Orestiade, poi, non si tratta solo di un film-diario, ma anche di un film musicale, perché ad un certo punto Pasolini prova a sperimentare, ricorrendo alla musica jazz di Gato Barbieri, la possibile forma di un film cantato, dove la tragedia dell’Orestiade viene interpretata da dei cantanti. È anche un film di montaggio, perché ricorre a brani di repertorio, per esempio sulla guerra in Biafra: c’è tutta una parte dove Pasolini monta degli spezzoni che non ha girato lui e che sono per altro particolarmente drammatici in quanto mostrano scene di guerra e persino la fucilazione di un soldato prigioniero durante la guerra del Biafra. E poi, invece, in qualche sequenza mette in scena proprio la tragedia di Eschilo.

Occorre notare che per tutta la durata del film – e così in quello precedente, appunto un film sull’India – Pasolini dice che sta soltanto prendendo appunti per un film che avrebbe realizzato in un secondo tempo. In realtà era proprio questa la forma di questi film e doveva essere la forma di tutto il progetto: un film che presenta materiale preparatorio a un film che verrà realizzato successivamente. Ma in realtà si tratta di una pura finzione, perché il film è proprio quello che stiamo vedendo in quel momento con i nostri occhi. Tra l’altro, la particolarità di Appunti per un’Orestiade africana è anche quella che a un certo punto, poco dopo l’inizio del film, Pasolini mette in discussione il film stesso, perché lo interrompe con una sequenza girata all’Università la Sapienza di Roma, dove il regista interpella alcuni studenti africani sul film di cui hanno visto alcune scene, chiedendo se secondo loro le sue idee sono giuste o sbagliate. Pasolini riprende le osservazioni che fanno questi studenti, comprese le considerazioni negative sulla concezione del suo film. E questa sorta di mise en abîme del film stesso è un dispositivo che Pasolini riprende dal cinema politico di Godard della fine degli anni Sessanta.

Nel 1968 Pasolini realizza un’opera contemporaneamente in forma di romanzo e film, Teorema, che in origine avrebbe dovuto essere una tragedia teatrale. Per la prima volta il quadro dell’ambientazione si situa nel seno di una famiglia altoborghese (a Milano), dove l’autore immagina che compaia un giovane e bellissimo intruso, un misterioso visitatore, un dio (interpretato dall’attore inglese Terence Stamp che aveva appena recitato nel Toby Dammit di Federico Fellini, celeberrimo episodio di chiusura di Tre passi nel delirio, trittico firmato, insieme a Fellini, da Louis Malle e Roger Vadim). L’intruso seduce tutti i membri della famiglia, il figlio – il rampollo della famiglia – la figlia, perfino il padre, questo grande industriale, la madre, ma anche la domestica. Congiungendosi a loro carnalmente li priva sia della loro falsa rispettabilità borghese sia della loro fragile identità, e quindi li abbandona. Dopo la sua scomparsa, precipitano tutti in una crisi esistenziale profonda. Soltanto la domestica, di origine contadina (impersonata da una prodigiosa Laura Betti, amica e sodale di Pasolini fin dalla fine degli anni Cinquanta, che per questo film vinse anche un premio che viene assegnato nell’ambito della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia per la migliore interpretazione, la Coppa Volpi), ha una metamorfosi benefica, diventando una sorta di “santa matta” che compie miracoli e che, alla fine, si sacrifica in un suicidio che sembra avere un valore catartico.

L’utopia di una crisi definitiva della borghesia è messa in scena dal poeta-regista con cromatismi freddi, a cui corrisponde una regia distaccata che contempla le azioni come fossero risultati di una dimostrazione geometrica. Angelo devastatore, l’Ospite è portatore di un eros che assume però una funzione sacrale e purificatrice, sconvolge ogni coordinata dell’acquario borghese. Il film si conclude con una desolata immagine del deserto dove vaga disperatamente il padre della famiglia, solo e nudo, condannato ad urlare senza fine.

Ricordiamo tra l’altro che per questo film Pasolini ha scritturato anche attori famosi, a esempio Massimo Girotti nel ruolo del padre (l’attore poi ritornerà nella parte di Creonte in Medea), Silvana Mangano (che era già stata Assurdina Caì nella Terra vista dalla luna, poi Giocasta in Edipo Re, e che qui appunto è una ricca signora altoborghese, moglie di un industriale) e Laura Betti.

Poi Pasolini realizza un breve episodio di Amore e rabbia, in questo caso il titolo dell’episodio di Pasolini è La sequenza del fiore di carta. Siamo sempre nel 1968. Questo filmato è una sorta di reinvenzione della parabola evangelica del “fico infruttuoso”. Il tema è quello della colpevolezza di chi è “innocente” quando innocenza significa indifferenza, sordità difronte alle tragedie del mondo. In questo caso l’indifferenza è quella di Ninetto Davoli che cammina per le strade di Roma, noncurante delle tragedie in atto in quel momento nel mondo (a esempio la guerra in Vietnam) e che sono convocate nel film dal materiale di repertorio sovrimpresso alle immagini dello stesso Davoli. Il film è una sorta di parabola: il personaggio infatti, per questa sua indifferenza, viene colpito dalla punizione divina sotto forma di un fulmine che lo uccide.

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Per Porcile (1969) Pasolini si ispira a un suo testo teatrale omonimo. Porcile è un film sperimentale, diviso in due parti che si alternano e che apparentemente non hanno nulla in comune. Una di queste due parti è appunto l’adattamento filmico della tragedia che Pasolini aveva ambientato nella Germania della metà anni Sessanta e alla quale si alternano le sequenze di una storia che invece è ambientata in un passato indeterminato. Nei tempi antichi i figli ribelli e disobbedienti venivano inesorabilmente stroncati dalla società dei padri – e qui vediamo appunto la storia di un giovane cannibale, che addirittura fa proseliti e aggredisce altre persone con la complicità di alcuni uomini e donne finché non viene intrappolato, arrestato dalla società che lo condanna a morte (questa figura ha una sorte di ieratismo che ricorda quello dei santi, può ricordare addirittura Cristo e rappresentare un rovesciamento dell’iconografia cristologica nella chiave trasgressiva del cannibalismo). Invece la seconda parte, quella ambientata nella contemporaneità, racconta del ricatto che un industriale tedesco compie nei confronti di un altro industriale per sfruttare il fatto che questi ha un figlio pervertito (la perversione consiste nell’accoppiarsi con i maiali). Approfittando di questo punto debole dell’industriale, l’altro industriale riesce a diventare membro di maggioranza della sua industria. Ma, proprio il giorno della fusione delle società e dell’assorbimento di quella del padre in quella del nuovo industriale, il figlio viene divorato dai maiali. Il senso di questa sorta di apologo è che nella società attuale i figli vengono eliminati perché nessuna contraddizione alla volontà dei padri è possibile, i figli devono essere di necessità obbedienti. E tutto questo avviene nella più assoluta omertà per non ostacolare il trionfale avanzare di un “nuovo ordine” totalitario che ha occulte matrici naziste. Infatti il nuovo industriale in realtà è un medico nazista che si è rifatto i connotati in Italia e che ha mutato identità. Dunque è una sorta di apologo terribile, crudele sul presente e sulla continuità dissimulata rispetto al nazismo. 
 

Contro il presente

Negli anni Settanta Pasolini intraprende su giornali come il “Corriere della sera” e “Il Mondo” una drammatica, incalzante requisitoria contro il presente, che nei testi raccolti in Scritti corsari e Lettere luterane analizza e descrive come trionfo della massificazione, manipolazione sistematica delle coscienze individuali, quindi come obliterazione dell’identità e della cultura popolare, annullamento di ogni diversità. A queste pagine di estrema lucidità, dedicate ai fenomeni del presente, fa riscontro la scomparsa della contemporaneità dalle immagini del suo cinema.

A parte la parentesi di 12 dicembre (1972), un film militante realizzato (ma non firmato da Pasolini) con un collettivo del gruppo extraparlamentare di estrema sinistra Lotta Continua sulla strage di Piazza Fontana a Milano del 1969, il “suicidio” di Pinelli e gli eventi politici e sociali connessi, Pasolini si rifiuta di filmare l’Italia contemporanea per la ripugnanza che gli ispira la sua degenerazione culturale e sociale.

Quando poi realizza un’appassionata “difesa” della salvaguardia di un’antica città yemenita dal vandalismo della modernizzazione forzata, nel breve film Le mura di Sana’a (1971-1974), è appunto ad una città del terzo mondo che lo dedica, in forma di appello all’Unesco, mentre “per l’Italia è finita”, come dichiara amaramente. E sono le stesse parole che usa anche in un altro cortometraggio per la televisione che realizza proprio in quel periodo, tra il 1973 e il 1974, intitolato La forma della città. In esso, prendendo spunto dalla degradazione paesaggistica, dallo sconvolgimento che la modernizzazione selvaggia sta operando nel territorio italiano, Pasolini arriva a dire che la società dei consumi sta provocando nel Paese una degradazione che è molto più grave di quella attuata a suo tempo dal fascismo perché, agendo direttamente sulle coscienze, produce effetti molto più profondi.

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All’orrore dell’Italia “televisiva” e consumista, contrappone invece la rievocazione del passato che attinge dalle pagine di Boccaccio, Geoffrey Chaucer e della novellistica araba per tre film: Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974) che costituiscono la Trilogia della vita. Questi tre film, narrati “per il puro piacere di raccontare”, sono in effetti molto diversi l’uno dall’altro e la leggerezza con cui le storie si susseguono (o, nel caso del Fiore, si incastonano all’interno di una vicenda che funge da filo conduttore) cela trame segrete, raffinate specularità e tonalità luttuose. Ogni film presenta una smagliante veste figurativa, non soltanto per la bellezza  degli ambienti autentici che Pasolini ha attentamente selezionato in Italia (gira soprattutto nel napoletano, in Campania, ma anche in Sicilia, poi in Europa, appunto in Inghilterra, e in Oriente, nello Yemen, in Persia, in Africa, in Nepal, in India), ma anche per l’apporto fondamentale dei suoi fedeli collaboratori: oltre a Donati per i costumi, anche Dante Ferretti per le scenografie e Tonino Delli Colli per la fotografia.

L’elemento unificante della trilogia è costituito soprattutto dall’esaltazione della corporalità popolare, dalla “realtà” del corpo e del sesso come unica dimensione rimasta ancora incorrotta, con tutta la violenza e l’oscurità delle accensioni del desiderio.

Ma anche di questa fase Pasolini finirà per fare abiura, non rivolta alla propria opera quanto all’immagine della gioventù che l’ha ispirata, al clima di liberalizzazione che si afferma negli anni Settanta. Secondo Pasolini, si trattava di una falsa liberalizzazione che, appunto in quanto falsa, esercitava forme nuove e più occulte di repressione, soprattutto nei confronti delle minoranze.

Questa abiura probabilmente è dettata anche dalla constatazione che il carattere trasgressivo, scandalosamente erotico dei suoi film è stato in qualche modo neutralizzato dall’industria cinematografica che ha prodotto una serie di sottoprodotti pornografici ispirati – per modo di dire – a Boccaccio, a Chaucer e perfino anche alle fiabe arabe.

Contro un presente di omologazione televisiva e consumistica che tutti ormai accettano con piena e conformistica soddisfazione, a cominciare proprio dalle classi popolari, Pasolini decide di rispondere con opere “inconsumabili”, di estrema oltranza narrativa, e si ispira liberamente al romanzo “maledetto” del marchese de Sade per il film Salò o le 120 giornate di Sodoma, che realizza nel 1975, l’ultimo anno della sua vita, ambientandolo nel 1944-45 durante la Repubblica sociale, cioè la repubblica costituita da Mussolini in alleanza con i nazisti. Non si tratta di un film storico, e neanche di un film sadiano, bensì di una enigmatica “sacra rappresentazione” divisa in gironi come un Inferno contemporaneo. L’inferno è l’universo concentrazionario e claustrofobico di un potere – incarnato da quattro laidi signori (un duca, suo fratello monsignore, un presidente di corte d’assise e un banchiere) – che converte ogni perversione e trasgressione in legge codificata, mentre punisce con la morte la legge e l’etica umana, costringendo nove ragazzi, nove ragazze e addirittura le figlie dei signori stessi a subire ogni abuso psicologico e fisico nel chiuso di una villa. Mentre procede di orrore in orrore, in un crescendo che è accentuato dal continuo contrappunto di un atroce e cinico umorismo (unica forma di linguaggio in cui si esprimono i quattro signori), il film scivola dal realismo iniziale (peraltro molto relativo, perché in effetti il fatto che le SS naziste obbediscano agli ordini dei fascisti è un dato deliberatamente inverosimile dal punto di vista storico) verso una dimensione allucinata e allucinante, che mostra lo sterminio della maggior parte dei giovani prigionieri e l’assorbimento di tre ragazzi “selezionati” nel nuovo e aberrante modello di umanità che è stato imposto. L’ultimo film di Pasolini diviene così una visione del presente come incubo di indifferenza e di indifferenziato, dove il sesso ha perduto qualsiasi carica liberatoria e sovvertitrice ed è abbrutito a pratica di consumo coatto, dove la realtà popolare è stata brutalmente e irreversibilmente cancellata da una mostruosa irrealtà di violenza.

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Salò non avrebbe dovuto essere l’ultimo film di Pasolini e tantomeno il suo testamento. Per la primavera del 1976 aveva già previsto la lavorazione di un film che rimase con un titolo provvisorio, forse provocatorio, forse ironico: Porno-Teo-Kolossal o Stella cometa, un progetto concepito per Totò nel 1967 e dilatatosi nelle dimensioni narrative fino a diventare un affresco visionario, dove la vena umoristica e picaresca di Uccellacci e uccellini si sarebbe dovuta fondere ai toni allucinati di Salò. Un vecchio re magio (che doveva essere impersonato da Eduardo De Filippo), affiancato dal suo schiavetto Nunzio (Ninetto Davoli) avrebbe dovuto inseguire la stella cometa apparsa nel cielo di Napoli attraverso tre città dell’Utopia (la stella cometa rappresenta l’ideologia, quindi si tratta dell’utopia dell’ideologia): Sodoma (la Roma degli anni Cinquanta), Gomorra (la Milano del 1976) e Parigi (assediata da un esercito tecnocratico fascista, in una rivisitazione della storia di Numanzia, l’antica città che preferì autodistruggersi piuttosto che sottomettersi all’Impero romano), fino ad approdare in Oriente, in un finale aperto e sospeso, sancito dalle parole: “Nun esiste la fine. Aspettamo. Qualche cosa succederà”.1

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1 Pier Paolo Pasolini, Porno-Teo-Kolossal, «Cinecritica», n. 13, aprile-giugno 1989.